Ha lavorato con sette presidenti e durante la pandemia è stato idolatrato e minacciato. Ora va in pensione («ma non me ne starò seduto a far niente»). Il medico più famoso d’America si confessa a L’Espresso

La pensione può aspettare. A ottantadue anni, Anthony Fauci, il medico più famoso d’America, non ha intenzione di tirare i remi in barca quando, a fine anno, lascerà tutti gli incarichi governativi. È ancora «appassionato, entusiasta e pieno di energie». Sfrondati gli impegni istituzionali, nella sua seconda vita ha appuntato conferenze e viaggi - anche in Italia - e l’immancabile memoir che inizierà a scrivere già il prossimo anno.

 

«Non giocherò a golf e non me ne starò seduto a far niente. Lavorerò con lo stesso impegno di adesso. La gente usa la parola pensione, ma è sbagliata», ci dice quando lo raggiungiamo, pochi giorni dopo la sua ultima conferenza stampa alla Casa Bianca. Atto finale di una lunga carriera da servitore dello Stato. Ai National Institutes of Health (Nih), l’ente nazionale di sanità, aveva messo piede per la prima volta nel 1968, fresco di laurea. Dal 1984, invece, è al timone del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid). Fauci è stato lo scienziato a cui gli ultimi sette presidenti si sono affidati per fronteggiare le emergenze sanitarie: Aids, Sars, Ebola, influenza suina, Zika e West Nile. Fino agli anni neri della pandemia, quando ha tracciato la rotta di una nazione in tempesta.

 

Un “eroe nazionale” lo ha consacrato il presidente Joe Biden. E il catalogo agiografico è di sostanza: biografie, libri illustrati, documentari (uno molto intimo di National Geographic uscito lo scorso anno, un altro in arrivo in primavera per Pbs). Il suo ritratto concettuale, opera dell’artista Hugo Crosthwaite, è alla National Portrait Gallery di Washington, tra quelli di presidenti, celebrità e personaggi che hanno fatto la storia di questo Paese. Anche la cantautrice Joan Baez gli ha dedicato un quadro che lo raffigura, corredato da un affettuoso “Coraggio!” in italiano. Ma per l’altra metà d’America, Fauci è stato “il” nemico. Un sentimento d’odio irrigato dal suo ex titolare, Donald Trump, al tempo impegnato a politicizzare ogni stilla dell’emergenza sanitaria, intralciando il lavoro del virologo con uscite bislacche (ricorderete la saga della candeggina, indicata come portento contro il virus) e pericolose. Negli annali, di quell’era resterà un’immagine plastica: il medico che si copre disfatto il volto con una mano, costretto a sorbire l’ennesima sparata del presidente.

 

Schivo, ma estremamente garbato, Fauci attribuisce la sua proverbiale capacità di resistenza alla formazione nel quartiere popolare italoamericano di Bensonhurst, a Brooklyn, dove è nato alla vigilia di Natale del 1940. Nelle vene, sangue meridionale: di Sciacca la famiglia paterna, di Napoli quella materna.

 

Dottor Fauci, immaginavamo un buen retiro, magari in Sud Italia, a godersi un po’ di meritato riposo. E invece?
«E invece voglio continuare a scrivere, a tenere conferenze. Spero di ispirare le giovani generazioni di scienziati a impegnarsi nella scienza, nella salute e nel servizio pubblico. In realtà, però, verrò presto in Italia, già l’anno prossimo. L’Università di Siena mi conferirà un dottorato ad honorem. Ho molti amici, è probabile che rimanga per un po’».

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Perché non ha aspettato la fine del primo mandato di Biden?
«Con il presidente abbiamo un ottimo rapporto, ma ho pensato che questo fosse il momento migliore. Quando ho accettato l’incarico di essere consigliere di Joe Biden, mi ero riproposto di restare un anno. Ma non avevo previsto che avremmo avuto un problema ancora persistente con il Covid. Di conseguenza sono rimasto ancora. Ora però va molto meglio, l’anno scorso registravamo 800mila infezioni al giorno e fino a 4mila morti. Adesso siamo scesi a circa 300-400 decessi».

 

Lei ha guidato il Paese durante uno dei frangenti storici più difficili. Cosa si porta dentro di quella fase?
«È stata un’esperienza terribile. Avevamo attraversato gli anni tremendi dell’Hiv, ma l’enormità della mortalità del Covid è stata senza precedenti. C’è però un aspetto positivo: il successo della risposta scientifica. Abbiamo riconosciuto il virus a gennaio del 2020 e undici mesi dopo avevamo un vaccino altamente efficace e sicuro che ha salvato milioni di vite. Anni fa sarebbe stato inimmaginabile».

 

Pensa che oggi il mondo sia più preparato ad affrontare una sfida simile?
«Sì, se impareremo la lezione degli ultimi tre anni. Scientificamente eravamo abbastanza preparati, ma dal punto di vista della salute pubblica, almeno negli Stati Uniti, non come pensavamo».

 

La pandemia ci ha mostrato un’umanità profondamente interconnessa. Un approccio globale ci aiuterà anche, ad esempio, a fronteggiare l’emergenza ambientale?
«Penso che sia assolutamente necessario. Non avremo successo se non agiremo come una comunità globale perché tutto ciò che riguarda un Paese, invariabilmente si ripercuoterà sugli altri. Il Covid è l’esempio perfetto. Non importa che sia iniziato in Cina, tutti i Paesi del mondo ne sono affetti. Se non affrontiamo globalmente una malattia che può infettare chiunque nel mondo, non la sopprimeremo mai. È esattamente la stessa cosa quando si ha a che fare con il cambiamento climatico. Non riguarda un continente, ma tutto il mondo. Se vogliamo affrontare con successo il cambiamento climatico, dobbiamo farlo all’unisono come comunità globale. Altrimenti falliremo».

 

Quanto è stato complesso lavorare con Trump?
«È stato difficile. Ho grande rispetto per la carica, è stato doloroso contraddirlo pubblicamente. Ma si è reso necessario, per la mia integrità personale e scientifica, per adempiere alla mia responsabilità nei confronti del pubblico americano; e, indirettamente, dato che gli Stati Uniti hanno un ruolo di leadership a livello globale, anche nei confronti dei cittadini di tutto il mondo, compresi quelli italiani. Sono stato attaccato quotidianamente dalla destra fedele al presidente Trump. È un peccato che ci sia questa forte componente antiscientifica. Mi hanno fatto diventare il nemico pubblico numero uno, ma non mi lascio turbare».

 

Perché l’approccio alla pandemia è stato così politicizzato?
«Non ho mai visto una divisione intensa come quella che viviamo oggi. È molto controproducente, dobbiamo riorganizzarci e resettare tutto. Le differenze ideologiche sono salutari in una società in cui ci sono persone con opinioni diverse, purché siano rispettose l’una dell’altra e disposte a scendere a compromessi per il bene comune. Ma negli ultimi anni sono state così marcate che hanno, ad esempio, interferito nella risposta alla pandemia».

 

Lei, sua moglie Christine Grady (a capo del Dipartimento di Bioetica dell’Nih) e le vostre tre figlie avete subito aggressioni e minacce di morte, tanto da rendere necessaria una scorta. Com’è stato quel periodo?
«Inquietante, inconcepibile. Non ha senso che una persona che ha dedicato tutta la vita a preservare la salute dei cittadini del suo Paese, scateni un tale grado di ostilità. Perché mai qualcuno dovrebbe poi voler minacciare la famiglia di un funzionario pubblico? Ma è successo».

 

Dall’altro lato della barricata, invece, è stata Fauci-mania: figurine, pupazzi, magliette, utensili d’ogni tipo con il suo faccione. Insomma, il culto dell’eroe nazionale.
«Io però tendo ad essere una persona molto realistica e umile. Quando prendi l’adulazione e il culto dell’eroe troppo sul serio, sei portato ad avere una valutazione irrealistica di te stesso. Non sono un eroe, sono solo Tony Fauci».

 

Conserva qualcuno dei gadget che la ritraggono?
«La gente me li manda e non voglio mancare di rispetto buttandoli. Ne ho diversi a casa».

 

Ha lavorato con sette presidenti. Quanto è difficile far prevalere le ragioni della scienza nelle stanze del potere?
«È stata un’esperienza positiva nella maggior parte dei casi. Sono persone con ideologie e circostanze storiche diverse. Ho avuto buoni rapporti con quasi tutti. Anche con Trump all’inizio, finché non ha iniziato a dire cose che ho dovuto contraddire. Ho un ottimo ricordo di George W. Bush. Mi ha dato il privilegio di essere uno degli architetti del President’s Emergency Plan for Aids Relief (il piano di emergenza per la lotta all’Aids, ndr), che ha permesso di salvare oltre 20 milioni di vite in tutto il mondo. Un risultato che, per molti aspetti, non ha eguali. Obama, ad esempio, è un intellettuale brillante, tra le persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Abbiamo dovuto affrontare alcuni problemi impegnativi, come l’Ebola in Africa occidentale e l’epidemia di Zika nell’emisfero occidentale. È stato sempre estremamente stimolante conversare con lui».

 

Era giovanissimo quando, con Reagan, ha dovuto affrontare il primo capitolo dell’Hiv.
«Un uomo di grande integrità; ha fatto molte cose buone, ma non è stato altrettanto energico nel guidare il Paese contro l’Hiv. Impiegò troppo tempo per riconoscere che avevamo un problema serio con Hiv e Aids».

 

Lei ha detto che uno dei suoi sogni è quello di un vaccino contro l’Hiv. C’è speranza?
«Non lo so, a essere sincero. Stiamo cercando da tempo di svilupparlo. Abbiamo ottimi metodi per prevenire l’infezione con la profilassi pre-esposizione. Ma penso che i progressi scientifici che siamo stati in grado di realizzare con il Covid potrebbero essere utili per lo sviluppo di un vaccino per l’Hiv».