Il torneo si svolge in uno dei Paesi più piccoli esistenti. Coinvolge un’intera area geografica, vitale anche per l’economia occidentale sotto l’egida del Consiglio di cooperazione. E i diritti umani vanno in secondo piano

Un enorme pallone da calcio in rame spicca in mezzo a lampade di Aladino, teiere di tutte le dimensioni, brick di caffè, souvenir di cammelli, e altri oggetti in ottone. Nonostante qualche cianfrusaglia di plastica, che non cela la provenienza Made in China, tutto è molto ordinato, pulito, al proprio posto. Ogni pezzo è stato messo bene per abbellire l’angolo espositivo e vendere al meglio. Come qualsiasi cosa nei ricchissimi Paesi del Golfo.

 

«La palla da calcio è per i Mondiali», dice subito fiero il commerciante, di origini iraniane, in piedi di fronte al suo bazar, al mercato Suq al-Mutrah della capitale omanita, Mascate. «Tutto il Golfo partecipa all’evento del Qatar», aggiunge, mentre il suo sorriso si è già perso in mezzo agli incensi, nei corridoi del suq.

 

Pochi chilometri oltre, in una delle spiagge pubbliche il cui ingresso non è stato riservato ai clienti di grandi hotel e resort a cinque stelle, diversi gruppi di persone, giovanissimi e meno, hanno delimitato sulla sabbia i confini di un ipotetico campo di calcio. La luce del tramonto del Golfo Persico e del Mare Arabico li accarezza mentre giocano, le maglie sportive imbevute di sudore fino all’ultima lettera della scritta Qatar 2022. È quella che la maggior parte di loro indossa.

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Domenica scorsa sono iniziati i Mondiali di calcio maschile, l’evento sportivo più seguito sulla terra, con il paradosso che per la prima volta si svolgono in uno dei Paesi più piccoli esistenti, il Qatar. Una monarchia costituzionale in mano alla famiglia al-Thani, che domina il Paese, nato nel 1971 come Stato indipendente, da 150 anni. Vicini di casa – e di Golfo - di altrettante monarchie: il Kuwait e il Bahrein, anch’esse costituzionali, la monarchia federale degli Emirati Arabi Uniti, e l’Arabia Saudita e l’Oman, monarchie assolute. Insieme formano il Consiglio di cooperazione del Golfo. Dalla penisola arabica è escluso solo lo Yemen, al contrario tra i più poveri al mondo. La metà della popolazione che vive nei Paesi del Golfo è di origine straniera, con delle punte in Qatar e negli Emirati in cui meno del 15 per cento della popolazione è formata da cittadini arabi locali.

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È la prima volta che la manifestazione sportiva avviene in un paese del Medio Oriente, un paese arabo. Questo è motivo di orgoglio e felicità per milioni di persone che vogliono che la loro area geografica abbia un peso diverso e restituisca un’immagine migliore da quella stereotipata sul mondo musulmano. Alla vigilia del campionato mondiale, una sfilata di bandiere palestinesi sono state sventolate nella Corniche della capitale Doha da tifosi tunisini, marocchini, qatarioti in festa, che dicono di non dimenticare la causa di quel popolo. Sanno però che questo avviene nel Golfo per un solo motivo: a lanciare la loro immagine sono i soldi del gas e del petrolio, non il pallone. E il potere di negoziazione che ne deriva per restare in campo: palla sempre al centro, da molto prima che fischiasse il calcio d’inizio.

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Quel fischio risuona in tutto il Golfo e non riguarda solo lo sport più amato da sempre. Dal 18 al 20 novembre in concomitanza con l’inizio dei Mondiali sfrecciavano nella vicina Abu Dhabi le macchine del gran premio di Formula 1. Nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, un parco di divertimento della Ferrari ricopre un’area di 100.000 chilometri quadrati e il logo sul tetto del noto marchio automobilistico è il più grande al mondo (65 metri per 49). L’Arabia Saudita si è aggiudicata la partita per le Olimpiadi invernali del 2029, celebre com’è per le sue dune di ghiaccio. Non sarà un primato saudita poter sciare sulla neve artificiale: è appena successo in Cina, nelle Olimpiadi scorse, a febbraio. Ma quello di sfidare il clima, anziché la crisi climatica, è una delle tante prerogative del Golfo. L’importante è fare credere tutto il contrario: il prossimo anno, tra record di torri più alte dei cieli, sarà Dubai ad accogliere la Cop28, la conferenza delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici. È appena terminata quella in Egitto, stretto alleato degli Emirati, e oppressore delle libertà, con 65.000 prigionieri di coscienza nelle sue carceri. Il Paese delle piramidi sa a chi passare la palla nel Golfo.

 

Sarebbe troppo facile rispondere alle critiche e al boicottaggio in corso dei Mondiali di calcio in Qatar dicendo che del resto nel 1934 si sono svolti in Italia e nel 1978 in Argentina. Ma nessuno nei Paesi del Golfo ha interesse a farlo: sarebbe come ammettere che le monarchie del Golfo sono dei regimi quasi assoluti così come erano delle dittature allora i due Paesi citati. Ma neanche quell’etichetta in fondo importa. Più vicino temporalmente l’esempio della Russia: solo nel 2014 ospitava le Olimpiadi invernali, quasi in concomitanza con l’inizio dell’occupazione della Crimea, e nel 2018 ha accolto gli stessi Mondiali di calcio. Quello che è successo dopo lo abbiamo ancora drammaticamente sotto gli occhi. Quantomeno si potrebbe dire che non porta bene.

 

Dopo il caso della Russia, criticata nel 2018 per il razzismo negli ambienti sportivi, il trattamento discriminatorio verso le persone Lgbtq, e record negativo su diritti umani, libertà di espressione e sfruttamento dei lavoratori, il Qatar si sarebbe già fatto l’autogol: ha attratto l’attenzione di tutto il mondo per farsi dire che lo skyline sul deserto non ne fa una nazione all’avanguardia. Non sarà la mancanza di una birra guardando la partita il problema, ma lo sono i container da dentro cui i migranti asiatici che hanno costruito gli stadi megagalattici resteranno a guardare. I riflettori occidentali sono accesi verso questa fetta di popolazione, la maggioranza.

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Ma dietro sport e clima, e dunque sportwashing e greenwashing, con una presunta visione green del futuro energetico che farà fatica a smarcarsi da petrolio, resort e i loro business, c’è anche la partita geopolitica dei Paesi del Golfo. Basti pensare al Qatar ancora una volta: alleato forte della Nato, con la base militare americana di al-Udeid, strategica per tutto il Medio Oriente, ha offerto per primo una sede politica ai Talebani afghani per una mediazione con Stati Uniti. Negoziati durati anni, ma la fine è stata più veloce dell’inizio.

 

Nella macchina di soldi che produce un Mondiale, il Qatar ha speso 220 miliardi di dollari, soprattutto per le infrastrutture (alberghi, rete stradale e costruzione del sistema ferroviario), un costo superiore ai ricavi generati nel mese del torneo. E la vendita delle merci con i marchi partner della Fifa non contribuisce al gettito fiscale del Paese ospitante. I salari dei lavoratori nonostante i leggeri miglioramenti non saliranno e chi faceva soldi prima ne farà di più, ma non con ricadute su un benessere più ampio. Il turista non interessato ai Mondiali ci starà per almeno due mesi alla larga. Almeno a breve termine, non ha senso dal punto di vista finanziario ospitare una Coppa del mondo di calcio. Ma alcune cose sono più importanti del denaro. Ospitare una Coppa del mondo è un esercizio di proiezione di soft power. Offre al mondo una finestra su tutto il Golfo, un buon posto in cui investire o fare affari. I Paesi vicini come Emirati e Oman sono diventati Paesi satelliti del torneo: l’Oman, che spera di ospitare almeno un 1 per cento di tifosi previsti, sta offrendo voli shuttle in corrispondenza delle partite. È il vicino politicamente neutrale nel Golfo che pure cerca di farsi notare. Il Qatar accoglie oltre un milione di visitatori, le previsioni dei fratelli del Golfo sono rimaste incerte.

 

Ed è proprio tra vicini che per poco non scoppiava una lite: dal giugno 2017 al gennaio 2021 il Qatar è stato isolato con un embargo da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto che lo accusavano di sostenere il terrorismo e aver troppi legami con Iran e Turchia. Quest’ultimi due non l’hanno mollato nella crisi diplomatica, da cui è uscito più forte che mai. Il 20 novembre il giovane principe Mohammed Bin Salman, il più autoritario e controverso dei principi del Golfo, è volato a Doha per la cerimonia di apertura dei Mondiali. Trista quella casa dove non entran mai vicini. Del resto le partite di calcio si guardano sempre insieme.

 

Una cosa è certa: anche dopo un autogol, i Paesi del Golfo non resteranno di certo in panchina. Sono pronti per la prossima partita.