Il primo novembre il Paese è chiamato alle urne per la quinta volta in tre anni e dovrà scegliere, ancora una volta, tra il centro di Lapid e la destra di Netanyahu. Ma anche come schierarsi nel conflitto tra Russia e Ucraina

La cosa migliore che poteva succedere a Israele era di sparire dai radar, non essere più al centro dei problemi del pianeta con una guerra che si trascina, tra intervalli, da 74 anni e ha reso il Medio Oriente, assieme ad altre emergenze, l’area più infiammata.

 

È successo. Dapprima quando le illusorie primavere arabe hanno spostato l’attenzione verso i Paesi convicini e le loro lotte intestine. Poi quando il disimpegno americano dall’area, determinato (anche) dalla raggiunta autosufficienza energetica di Washington, un disimpegno cominciato con Obama e proseguito con Trump e Biden, ha catalizzato l’interesse sull’annunciato dualismo del Ventunesimo secolo tra Usa e Cina. Infine con il conflitto in Ucraina che obbliga a volgere lo sguardo verso la frattura di mondi apertasi nel centro dell’Europa, con traumatici cascami geopolitici che dall’epicentro si irradiano verso periferie lontane, in attesa della ricomposizione di un nuovo ordine semmai arriverà.

 

Esaurita la seconda Intifada (2005), chiusa la guerra con il Libano (2006), in tutto questo tempo lungo più di un decennio Israele è stata sì impegnata in alcune crisi peraltro temporalmente molto contenute con la Striscia di Gaza (2012, 2014, 2021) e in altrettante scaramucce con i palestinesi in Cisgiordania, ma ha potuto dedicarsi con vigore a rafforzare un’economia peraltro proverbialmente molto vivace. Il Pil ha sempre avuto segno positivo, salvo nel 2020 causa Covid, e quest’anno dovrebbe attestarsi su una crescita prevista del 5,7 per cento.

 

Dal 2017 ad oggi il Pil pro capite ha compiuto un balzo di circa 13 mila dollari (da 41.131 a 54.462). L’inflazione segna un record al 4,5 per cento, comunque di molto inferiore alle cifre europee, il debito pubblico è rimasto pressoché inalterato attorno al 60 per cento. Una situazione invidiabile vista l’epoca che viviamo. E che potrebbe diventare floridissima nei tempi medi grazie a un accordo sancito lo scorso 11 ottobre e definito “storico” con il nemico Libano per lo sfruttamento di un enorme giacimento di gas (parola magica nell’inverno del nostro scontento) nel Mediterraneo del valore stimato in miliardi di dollari. Le controparti non hanno trattato direttamente, c’è voluta una mediazione americana, e tuttavia hanno concordato di delineare frontiere marittime prima contese. Solo marittime, attenzione, nessun accordo per quelle terrestri. Il business più forte di tutto insomma in un patto che dovrebbe aiutare il disastrato Libano a risollevarsi e Israele a rimpinguare ulteriormente i propri forzieri.

 

In questo quadro mai così favorevole, fa eccezione una turbolenza politica senza precedenti se il primo novembre si terranno le quinte elezioni nell’arco di tre anni. O forse è proprio la relativa quiete a scatenare la bagarre dei partiti: con il nemico alle porte si tende a cercare una stabilità dei governi che a queste latitudini è ormai una lontana chimera. Se poi l’ennesima chiamata alle urne servisse a qualcosa.

 

I sondaggi fotografano una situazione di stallo simile alle precedenti. Ormai residuale la sinistra, Israele è in bilico tra due coalizioni una centrista e una di destra che sembrano ispirate a due slogan esattamente contrapposti: chiunque ma non Netanyahu; nessuno se non Netanyahu. I primi l’avevano spuntata per un solo seggio la volta precedente, costituendo la più variegata compagine di governo mai registrata e che includeva al potere i partiti degli arabi-israeliani. I secondi, seppur in un contesto molto fluido, sono dati in leggero vantaggio, grazie al frazionamento degli arabi-israeliani non più riuniti sotto la stessa bandiera e alla disaffezione al voto dei cittadini arabi molti dei quali, disillusi, almeno nelle previsioni dovrebbero toccare il record di astensionismo.

 

Nonostante l’incertezza, Israele va, i suoi fondamentali economici come abbiamo visto sono decisamente buoni con qualsiasi premier. Eppure il deputato in più o in meno stavolta potrebbe pesare in modo significativo sulla collocazione internazionale a causa dei cascami lunghi della guerra lassù al cuore dell’Europa. Yair Lapid, 59 anni, il fresco premier in carica dal primo luglio e già uscente, dopo un lungo esercizio di equivicinanza tra i belligeranti, è uscito allo scoperto e ha promesso armi a Kiev, spinto dall’amicizia con Joe Biden e dalle pressioni di Volodymyr Zelensky che gli ha ricordato le sue origini ebraiche. Una svolta che ha provocato la reazione infuribondita di Dmitry Medvedev, l’ex presidente russo uso a rivestire i panni del falco tra i falchi al Cremlino.

 

Lapid si è risolto all’impegno con gli aggrediti perché il peggior nemico di Israele, l’Iran, ha fornito micidiali droni ai russi. E teme, al pari dei suoi generali, che un legame ancora più stretto tra gli ayatollah e lo zar possa portare benefici militari alla Repubblica teocratica di Teheran.

 

Il premier non si è spinto al punto da offrire Iron Dome (Cupola di Ferro), il costoso dispositivo che protegge Israele dai missili, ma secondo alcune rivelazioni del New York Times ha offerto consiglieri israeliani in grado di aiutare le truppe ucraine a contrastare gli ordigni dell’Iran, peraltro ovviamente molti studiati a Gerusalemme.

 

Dovesse essere riconfermato nella sua carica, Lapid dovrebbe affrontare la prevedibile reazione di Putin il quale potrebbe bloccare, come ha già minacciato mesi fa, l’esodo degli ebrei russi: uno su otto, stando ad alcune statistiche, avrebbero lasciato la Russia per raggiungere Israele dall’inizio del conflitto. Così come potrebbe rimettere in discussione il tacito accordo raggiunto sulla Siria.

 

Mosca controlla lo spazio aereo siriano eppure non ha volutamente impedito raid dell’aviazione con la stella di David per bloccare i rifornimenti iraniani agli Hezbollah libanesi. E se invece vincesse il sempiterno Bibi Netanyahu? Fu lui a stabilire ottime relazioni con Vladimir Putin e a creare il precario equilibrio su cui si regge oggi il Medi Oriente. Perché va bene la sofferenza degli ucraini, ma la Siria è a un passo ed è anello fondamentale di quella dorsale sciita che si estende dal Golfo Persico al Mediterraneo: una minaccia incombente sullo Stato degli ebrei. Israele avrebbe voluto sparire dai radar delle emergenze. Ma è il mondo fattosi turbolento che ora bussa alla sua porta: e gli chiede di scegliere.