Mentre Usa e Regno Unito minacciano sanzioni alla Russia, Francia, Germania cercano di risolvere la crisi tenendo aperto il dialogo. In ballo ci sono interessi economici ed energetici. All’apice della tensione Enel, Unicredit e Barilla trattano con Putin e provocano una levata di scudi

La de-escalation tra Russia e Ucraina cercata con il dialogo, nei fatti, non produce risultati. Oggi si riunirà il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nonostante il Cremlino ritenga infondate le preoccupazioni dell’Occidente. Stati Uniti e Gran Bretagna confermano il loro atteggiamento “muscolare” per affrontare le tensioni. Il Congresso americano è pronto ad adottare "la madre di tutte le sanzioni", mentre il Regno Unito, scrive il New York Times, offre di ampliare il dispiegamento di truppe nei Paesi a est. Nessun successo neppure sul fronte di dialogo europeo: dopo otto ore di trattative, i colloqui nel “formato Normandia” tra Russia, Ucraina, Francia e Germania, le posizioni rimangono le stesse. La Germania è neutrale, la Francia si conferma mediatrice centrale e l’Italia è ancora involuta sulle questioni di politica interna.

Al formato Normandia di Parigi, con la presenza del presidente Emmanuel Macron e del cancelliere tedesco Olaf Scholz, hanno partecipato anche i consiglieri di capi di Stato e di governo e i rappresentanti dei ministeri degli Esteri di Russia e Ucraina. La linea, spiegata dall’Eliseo e condivisa dai due partner europei, era quella di promuovere la de-escalation «attraverso dialogo e dissuasione». Con una stoccata alla via delle sanzioni, che non possono essere «l’alfa e l’omega di ogni risposta», né tantomeno devono trasformarsi «in ritorsioni che avrebbero un costo anche per noi». Eppure, come emerge dal comunicato congiunto al termine dei colloqui, sbrogliare l’impasse è ancora impossibile: «L’intenzione è rispettare il cessate il fuoco, a prescindere da altre questioni relative all’applicazione degli accordi di Minsk». Ancora nessuna soluzione pratica, il formato Normandia verrà replicato a Berlino tra due settimane.

Lo stesso giorno in cui Macron e Scholz si affannavano a trovare un punto di incontro tra i due Paesi in crisi, alcuni dirigenti italiani – tra cui quelli di Enel, Unicredit e Barilla – incontravano il presidente Putin in video-call. Il primo ministro Mario Draghi aveva chiesto di annullare l’evento, ma c’è stato lo stesso. Nonostante l’attenzione del nostro Paese fosse rivolta soprattutto alle questioni di politica interna, della rielezione di Mattarella si è saputo solo sabato, la video-call è stata criticata dai componenti del Copasir Enrico Borghi (Partito democratico), Federica Dieni (Movimento 5 stelle, vicepresidente del Comitato) ed Elio Vito (Forza Italia). È «singolare che proprio mentre in Europa e negli Stati Uniti cresce la preoccupazione per la situazione ai confini dell’Ucraina, manager di rilevanti società italiane tengano oggi una conference call con dirigenti di importanti società russe e con il presidente stesso», sostengono. Conference call bollata come «inopportuna» anche dall’Unione europea.

«L’Italia – spiega Antonio Villafranca, Direttore della ricerca di Ispi – svolge da sempre un ruolo di mediazione con la Russia, a prescindere dall’orientamento dei governi che si sono succeduti». Nonostante questo, è forte il sospetto che Putin abbia però sfruttato l’occasione per cercare supporto tra i vertici dell’economia italiani, nel caso di un eventuale aumento delle sanzioni. Memore del fatto che proprio il nostro Paese, nel 2014, svolse un ruolo chiave opponendosi a misure punitive troppo severe contro la Russia dopo l’invasione della Crimea. «Il gioco di Putin è da sempre quello del “divide et impera”, e la preoccupazione degli imprenditori di difendere i loro interessi è comprensibile. Ma nonostante le iniziative dei privati e le posizioni diverse, la decisione verrà presa dalla politica», chiarisce l’esperto.

Il vero nodo per evitare lo scontro diretto, dice Villafranca, «è capire quanto l’Europa è disposta a cedere, soprattutto sull’indipendenza dell’Ucraina e sulla continuità territoriale della regione del Donbass». Anche se esiste il rischio che Putin consideri un’invasione anche solo parziale come un ulteriore elemento di pressione per ottenere di più, minacciando l’Europa di chiudere i rubinetti per l’approvvigionamento del gas. Ed è proprio su questo terreno che si snodano gli equilibri tra l’Occidente, in particolare la Germania, e la Russia. Il Paese di Scholz è infatti interessato a proseguire i rapporti diplomatici e a distendere la situazione «anche in nome della sua dipendenza energetica, una posizione da bilanciare con gli interessi della Nato per evitare di venire isolata dagli altri partner», dice Johannes Varwick, Professore di Relazioni internazionali e politica europea all’Università di Halle. La materia del contendere è Nord Stream 2, il gasdotto che – passando attraverso il Mar Baltico – trasporterebbe il gas russo in Germania. L’opera non è ancora attiva e Biden minaccia Putin di bloccarne l’apertura in caso di invasione dell’Ucraina.

La risposta tedesca, però, è molto più morbida. Il Cancelliere fa rassicurazioni piuttosto vaghe, garantendo che «tutto è possibile in caso di aggressione». È lo stesso atteggiamento della ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, che da una parte conferma come le misure punitive contro Putin coinvolgeranno anche il progetto energetico e dall’altra dichiara di voler proseguire il dialogo con Mosca. La crisi attuale è il primo vero banco di prova per il nuovo governo di centro-sinistra, che nonostante i punti di differenza con Angela Merkel dimostra – secondo il Professore di Politica internazionale all’Università di Monaco Carlo Masala – di proseguire nel solco del “weiter so” merkeliano per quanto riguarda le relazioni con la Russia. «L’unica cosa che ancora manca a Scholz, per ragioni di tempo, è il rapporto diretto che l’ex Cancelliera era riuscita a creare con Putin. Per il resto, nelle scelte politiche verso il Cremlino c’è continuità», aggiunge.

Nel progetto di mediazione tedesco trovano posto anche altre questioni e un passo falso. Nonostante le pressioni dell’ambasciatore ucraino a Berlino, Andrij Melnyk, e le critiche provenienti soprattutto dall’ala più conservatrice della stampa (il quotidiano Welt su tutti), il governo continua a tener fede a uno dei punti dell’accordo della nuova coalizione: non inviare armi letali e non favorirne la consegna nelle aree di crisi. In questa scelta rientra anche la decisione di rimandare il via libera all’Estonia per inviare in Ucraina degli obici risalenti all’ex Repubblica democratica tedesca, acquistati dalla repubblica baltica in Finlandia. Il dibattito sulle armi è più acceso che mai. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba su Twitter ha definito l’esitazione tedesca «deludente», e il presidente della Commissione esteri al Bundestag, Norbert Roettgen (di centro-destra), ha detto in un’intervista di considerare l’invio di armi «legittimo dal punto di vista morale e politico». Alla pluralità di posizioni si aggiungono le dimissioni del Capo della marina militare tedesca, Kay-Achim Schönbach, dopo le dichiarazioni sul rispetto che Putin meritava e le considerazioni sulla Crimea ormai persa e l’impossibilità di farci qualcosa.

Quel che è certo, finora, è che la Germania invierà in Ucraina 5000 caschi militari. Un gesto di sostegno, secondo la ministra della Difesa Christine Lambrecht. Convinta come la maggioranza di governo che il conflitto possa «risolversi in modo pacifico». La ministra ha però aggiunto che esiste una linea rossa oltre la quale non è possibile andare: «Il rispetto del diritto internazionale e la sovranità dell’Ucraina». Intanto, oltre alle dichiarazioni ufficiali, continuano le manovre diplomatiche: Macron ha telefonato a Putin, Biden ospiterà Scholz a Washington il 7 febbraio e il presidente turco Erdogan, come accaduto in passato con la crisi afghana, si è offerto di mediare tra Russia e Ucraina. Saranno i prossimi giorni a dire se quella famosa «linea rossa» verrà superata.