Storia di Kawusi, agente nella capitale. Prima in lotta contro la corruzione portata dagli Occidentali. Ora deciso a resistere

Da bambino Kawusi N. viveva nel quartiere PD11 a Kabul, nell’antica casa dei suoi nonni. Tutti i giorni usciva per aiutare la nonna con la spesa. Di un mattino del 1996 ricorda che lei gli avesse chiesto di comprare cinque pezzi di pane, «meglio uscire il meno possibile, corri al negozio e torna più in fretta che puoi». Kawusi aveva 11 anni, avvertiva un allarme che non comprendeva pienamente. È uscito di casa correndo, ha comprato il pane, afferrato la busta tra le mani e uscendo dalla bottega si è trovato di fronte un gruppo di adolescenti, col turbante nero sul capo, armati: Dove vai, ragazzino infedele? gli hanno chiesto. Kawusi era spaesato, l’allarme che avvertiva aveva preso forma.
Il paese era ormai in mano ai talebani e lui non lo sapeva: «Ho risposto: andatevene o vi prendo a pugni. Hanno iniziato a picchiarmi, calci e pugni, mi hanno preso a bastonate sulla schiena. Quando mi sono alzato mi colava il sangue dal volto, il pane era a terra».


Kawusi non ha pianto, è tornato a casa dopo aver rimesso nella busta il pane, ormai pieno di polvere, e si è chiuso in camera sua per alcune ore senza dire una parola: «Quel pane ha segnato il mio destino, ancora oggi sento i loro calci». Quando è uscito dalla stanza i suoi genitori avevano deciso che fosse arrivato il momento di scappare e pochi giorni dopo Kawusi e la sua famiglia erano in Pakistan. Era iniziata la diaspora afghana. In Pakistan Kawusi ha studiato, è diventato un ragazzo, prima di tornare a Kabul, nel 2002, due giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno.
«Nel 2002 l’Afghanistan usciva dalla guerra, c’erano insieme distruzione e speranza».


Si è laureato, ha perfezionato il suo inglese, ha iniziato a collaborare con le organizzazioni internazionali arrivate a decine con i programmi di sviluppo in ogni angolo del Paese. Per un anno ha lavorato come consulente per la comunicazione di una agenzia delle Nazioni Unite: «È stato l’anno più lungo della mia vita. Ho cominciato a vedere la fragilità dell’intervento occidentale. Le organizzazioni internazionali ci ripetevano in continuazione: l’Afghanistan a guida afghana, oppure: prima gli afghani. Eppure in qualsiasi Ong, o agenzia dell’Onu, non c’era un capo di dipartimento locale. Non c’erano afghani a capo di niente. Ci passavano sotto gli occhi progetti da milioni di dollari l’anno destinati a noi e però nessuno di noi sembrava meritare di gestirli o indirizzarli». Il giovane Kawusi che lavorava per le Nazioni Unite aveva poco più di vent’anni, l’età delle illusioni, dei grandi progetti, delle parole d’ordine per il futuro. La sua parola era “fiducia”. Poi ha cominciato ad avere dubbi e il progetto dell’Afghanistan per gli afghani è diventato un miraggio, «erano slogan pubblicitari che piacevano ai donatori. Una larga fetta di denaro veniva spesa per gli alloggi dello staff internazionale, per la loro sicurezza, per i grandi, costosi veicoli blindati. Quindi, tanto del denaro entrato qui per aiutare il popolo afghano in realtà è tornato indietro ai donatori». Allora, nei primi anni duemila, lavorando per le Nazioni Unite, Kawusi riceveva un lauto stipendio «dieci volte più di oggi», ma una mattina ha rassegnato le dimissioni: «Mentre i benestanti afghani guadagnavano 500 dollari, da addetto alle Un ne guadagnavo 5 mila. La mia vita era alterata. Mi sono detto: se voglio vivere in questo paese devo essere pagato in proporzione alla nostra economia».


Il flusso di denaro arrivato dopo la guerra è stato in parte destinato a progetti di sviluppo ma in parte ha contribuito ad alimentare la macchina della corruzione. La guerra di vent’anni è costata agli americani 825 miliardi di dollari in spese militari e 130 miliardi in spese di ricostruzione, e in un rapporto al Congresso degli Stati Uniti della fine del 2020, l’organismo di vigilanza responsabile della supervisione degli sforzi di ricostruzione dell’Afghanistan ha stimato che circa 19 miliardi di dollari siano stati persi in un decennio tra il 2009 e il 2019, destinati al paese ma finiti in un giro di sprechi e frodi. In mezzo a questi abusi la composizione delle città è cambiata come accade spesso quando tanti soldi finiscono nelle mani di pochi: hotel lussuosi, sale da matrimoni, hall per banchetti e ricevimenti. Gli anni duemila sono stati, soprattutto per Kabul, un tempo in cui una stretta cerchia godeva dei profitti della ricostruzione. Mentre Kabul si modellava e cambiava con i soldi, Kawusi decideva di entrare nelle forze dell’ordine, come migliaia di altri ufficiali, addestrato dalle truppe statunitensi e della Nato. Faceva parte del corpo di polizia, verso il quale gli afghani avevano sempre dimostrato poca fiducia: troppo pigro, troppo fragile, troppo esposto alla corruzione.


La descrizione di Kawusi è speculare: pagati poco, poco motivati, poco legittimati.
«Gli occidentali sono arrivati qui e hanno messo in piedi una struttura militare sostenibile per gli Stati Uniti e le altre trenta nazioni della Nato, ma non per noi. Siamo stati trattati come addetti ai lavori di altri, ma in vent’anni non siamo stati messi nella condizione di essere autosufficienti nella gestione dell’arsenale e delle strategie militari».


Quando abbiamo parlato con Kawusi nella caserma di polizia a est di Kabul, i talebani avevano già conquistato l’ottanta per cento del paese. Mancavano tre settimane alla fine del ritiro delle truppe statunitensi. La situazione aveva avuto un’accelerazione allarmante, eppure Kawusi manteneva un ottimismo che aveva il sapore dell’imprudenza.
Ci aveva raggiunti in ritardo, doveva completare la lista delle telefonate quotidiane. Era capo del dipartimento della Polizia e addetto alla tutela delle famiglie degli ufficiali. Sembrava una descrizione un po’ fumosa prima che Kawusi entrasse in ufficio con le lacrime agli occhi. Le telefonate che lo avevano tenuto impegnato erano quelle alle famiglie dei caduti in battaglia. Erano tante, venti, e voleva farle tutte lui personalmente: «Queste telefonate mi tolgono le parole. Quando parlo con una donna anziana o con una giovane madre per dire che il figlio, il marito sono morti, ho il cuore strappato, ogni volta. È qualcosa a cui non riesco ad abituarmi».


Contattare personalmente le famiglie dei caduti ha insegnato a Kawusi, negli anni, a leggere il paese in cui vive, per lui le forze di polizia erano giovani uomini fieri nella divisa, per le famiglie che li aspettavano tornare erano poveri capifamiglia che a malapena ricevevano il misero stipendio che spettava loro. «Essere un poliziotto non è un lavoro affascinante, non ti fa ottenere crediti con i politici o i funzionari governativi, siamo stati assunti per tutelare la sicurezza delle strade e dei distretti e ci siamo trovati a combattere in prima linea la guerra contro i talebani. Ma non siamo l’esercito, non eravamo preparati al fronte. La vita di questi ragazzi vale qualche centinaio di afghani (la moneta locale, ndr) al mese, ma il loro sacrificio sembra valere meno di quello delle forze speciali dell’esercito. Nessuno ama o dà credibilità alla polizia». Quando aveva incontrato il Ministro dell’Interno, nella riunione operativa per stabilire la formazione del suo dipartimento, si era scontrato con una forte resistenza, come se al ministero non capissero che per combattere la corruzione ormai endemica alle forze di polizia - 150 mila in tutto il paese, scontente del proprio lavoro - fosse necessaria una strategia che coinvolgesse non solo gli ufficiali ma le loro comunità: «Gli ho detto: ascolta Ministro, ho due figli, se mi dai 20 mila afghani e pago un affitto di 15 mila e dopo una settimana i miei figli hanno fame, come padre sarei capace di fare qualsiasi cosa per essere certo che abbiano da mangiare. Potrei rubare, chiedere tangenti, o perché no arruolarmi con i talebani, se mi pagano meglio». Il compito del suo dipartimento era garantire che i poliziotti non arrivassero a quel punto.


Per vincere la corruzione dovevano dare ai poliziotti ciò di cui avevano bisogno, uno stipendio rispettabile, una vita sicura, qualche aiuto per una casa e per la scuola dei figli.
Praticamente le forme di welfare che i gruppi fondamentalisti promettono alle reclute per portarle dalla loro parte.


Mentre descriveva i suoi progetti per restituire autorevolezza alle forze di polizia, il paese stava scivolando verso l’emergenza umanitaria. Il traffico all’esterno della caserma era già bloccato da pullman e taxi collettivi in arrivo da Kunduz, Kandahar, Logar, dove si stava ancora combattendo.
Kawusi, rapito dal suo ruolo, pareva non vedere quanto prossima fosse la caduta. Immaginava il suo paese tra dieci anni, leggeva il caotico ritiro delle truppe con severità ma, diceva «finalmente l’Afghanistan sarà degli afghani. Il loro slogan diventerà il nostro».


Era ottimista, fiducioso nella generazione cresciuta dopo il 2001: «Se vogliamo aggiustare questo paese dobbiamo farlo noi, solo noi. Nessun altro. Nessun altro lo farà al posto nostro. Non torneranno i talebani, una volta che ti ha morso il serpente, avrai per sempre paura del veleno».
Una settimana dopo Kabul sarebbe caduta.
Quando l’abbiamo chiamato, quel giorno, per avere notizie sul presunto attacco talebano alla prigione di Kabul, Kawusi negava la realtà.
È falso, diceva. Credetemi. Poi la voce gli si è strozzata in gola.
Prima di salutarci, nel suo ufficio in caserma, sette giorni prima della fine, si era mostrato infastidito dalle cronache televisive che mostravano civili in fuga. Era stato uno dei più fermi critici del governo Ghani, corrotto e inaffidabile, ma, spiegava, «se continuo a dire che qualcosa è sporco, ecco quella cosa non si pulirà da sola. Non dobbiamo lamentarci, non dobbiamo scappare. Dobbiamo pulire il paese, non lasciarlo pulire ai talebani».
Aveva viaggiato, aveva visitato Parigi e New York, ma Kabul, diceva, è il suo posto: «Se resto posso aggiustare le cose. Se scappo è la fine della lotta».


Oggi Kawusi è ancora a Kabul. Spaventato, ma è lì. Per questo non menzioniamo il suo cognome né mostriamo il suo volto.
È più indulgente verso chi ha cercato la salvezza nella fuga, ma non si muove dal suo paese.
Kabul è cambiata, Kawusi è cambiato e insieme a lui una generazione che ha bisogno di essere sostenuta.
«Non siamo più l’Afghanistan del 2002 quando non avevamo una classe istruita e nessuno capiva di affari, economia, arte, cultura o diritti. Questo è l’Afghanistan del 2021 e siamo tutti persone diverse. È il nostro turno per farci avanti e finalmente prendere in mano il nostro futuro».