Soldi, equipaggiamenti, finanziamenti miliardari, anni di addestramenti. Tutto evaporato in pochi giorni. Perché le guerre non le combattono i numeri e le armi

I giorni finali dell’offensiva talebana dell’agosto 2021 saranno studiati e citati a lungo come esempio perfetto di «guerriglia-lampo». Un esercito forte – almeno sulla carta – di circa 180.000 uomini, addestrato dall’Occidente per anni, ben equipaggiato per affrontare l’attacco degli insorti si è letteralmente dissolto, permettendo al nemico di occupare la capitale senza sparare un colpo.


Ci sono due tipi di considerazioni che si possono fare osservando quanto accaduto in Afghanistan tra l’11 e il 15 agosto. L’incruenta e decisiva vittoria dei Talebani dimostra una volta di più quanto sia vero che in guerra «i dilettanti si preoccupano soprattutto di tattica, i professionisti di logistica»: lo stupore di fronte alla disfatta dell’Afghan national army è ingiustificato, perché il rapido venir meno dell’appoggio occidentale aveva già provocato il tracollo delle strutture logistiche delle forze armate di Kabul. Non c’erano più benzina, pezzi di ricambio, munizioni; gli specialisti addetti alla manutenzione dei mezzi terrestri, degli elicotteri e degli aerei da attacco al suolo, molto spesso contractors privati, erano già ripartiti senza che nessuno potesse sostituirli. L’esercito afghano era un guscio vuoto.


È la prima lezione: inutile avere armi ed equipaggiamenti (relativamente) sofisticati, se non si possiedono anche le conoscenze e le risorse per mantenerli in efficienza. Per spostarsi è meglio una bicicletta che un humvee senza carburante. Ma questo non basta. Il secondo insegnamento, altrettanto importante, è che le guerre non le combattono i numeri e le armi, ma gli uomini. Anche nel terzo millennio. Uomini che devono essere disposti a rischiare di restare feriti o uccisi; disposti al sacrificio per senso del dovere, per fedeltà alla patria o al loro comandante, per ideologia, religione o almeno per denaro. Possono mancare alcune di queste motivazioni, ma non tutte: un esercito che non si riconosca in un governo autorevole, che non sia convinto di rappresentare il proprio popolo, che non sia unito da una forte spinta ideale – di qualsiasi tipo – e che non venga pagato da mesi, come stava accadendo all’Afghan national army, è sconfitto prima che voli una freccia, avrebbero detto gli antichi. Lo possiamo ripetere ancora oggi: nonostante l’invadenza della tecnologia, in guerra resta determinante il fattore umano. Perché il combattimento è forse la più terribile e crudele tra le esperienze che uomini e donne debbano affrontare, e per farlo hanno bisogno di una forza morale fuori dal comune. Altrimenti, se un nemico si avvicina con una bandiera di tregua e pone una scelta – deporre le armi e andare a casa, o prepararsi a combattere senza quartiere – l’esito è prevedibile.


Inadeguatezza logistica e fragilità morale sono due buone ragioni per spiegare la disfatta dell’esercito afgano. Ma la questione di base resta irrisolta. Come è stato possibile, in tanti anni e con l’impiego di un fiume di denaro – si parla di quasi 90 miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti, più le somme spese dagli alleati Nato – non essere riusciti a creare una forza capace almeno di contenere l’avanzata di poche decine di migliaia di guerriglieri armati alla leggera, ovvero con pick-up civili, mitragliatrici, Ak-47, lanciagranate a razzo (Rpg)?


Trovare una riposta non è semplice. Il fallimento, come sempre, è stato prima di tutto politico: appoggiando una classe dirigente screditata, corrotta, faziosa, o percepita dai più come estranea al paese – è il caso del presidente Ashraf Ghani – si è privato anche l’esercito di una guida affidabile. Il secondo fallimento è stato organizzativo: per semplicità si è lasciato che venissero mantenute all’interno dei reparti differenze e rivalità etniche, che hanno impedito la formazione di un vero esercito «nazionale», ad onta del suo nome. A questo si è aggiunta l’incapacità di controllare quello che accadeva realmente nelle caserme e nelle basi militari, dove la corruzione era endemica. Una quantità enorme di denaro è stata sprecata; peggio, ha creato un circolo vizioso di crimini, aspettative e tradimento. Gli ufficiali che falsificavano gli organigrammi delle unità per intascare la paga di soldati inesistenti avevano bisogno della complicità dei loro subordinati, e quindi chiudevano un occhio sui loro traffici illeciti; i soldati, a loro volta, consapevoli di quanto accadeva, si adattavano, preparandosi a sopravvivere al peggio abbandonando l’uniforme al momento opportuno. Gli istruttori della Nato, quando dovevano operare con un reparto, trovavano spesso solo la metà degli uomini presenti, i mezzi fermi o fuori uso, le armi inefficienti, il comandante «in licenza». Tutti lo sapevano da anni, ma nessuno ne faceva parola, se non in forma anonima, con scarso effetto su un’opinione pubblica occidentale molto distratta.


Difficile stupirsi, dunque, della vittoria degli insorti, considerata inevitabile da almeno due anni. Per qualche motivo, invece, restava viva anche tra i più informati la convinzione che ci sarebbe stata una certa resistenza da parte dell’Afghan national army, e quindi più tempo per organizzare l’evacuazione finale: senza alcun imbarazzo Jens Stoltenberg ha ripetuto il 17 agosto «di essere stato colto di sorpresa» dalla rapidità dell’avanzata dei talebani. Un successo così completo da sfidare ogni paragone storico-militare: perché una guerra lunga vent’anni è stata conclusa in pochi giorni quasi senza spargimento di sangue, dimostrando come la cura di politica e strategia debba sempre avere la precedenza su quella di tattica ed equipaggiamento. I talebani hanno saputo aspettare per anni il momento della controffensiva, adottando una efficace strategia di attrito morale e materiale; hanno tessuto con pazienza una rete di contatti politici con i capi locali; hanno infiltrato «cellule dormienti» in molti reparti dell’esercito afghano e in tutte le maggiori città; sono riusciti a sfruttare al meglio i mezzi d’informazione più moderni e capillari, alternando promesse di amnistia a filmati, diffusi soprattutto via twitter, in cui lasciavano vedere (pur negandolo poi ufficialmente) come passavano per le armi chi tentava di resistere. Ora il paese è loro, tranne la roccaforte tagica della valle del Panjshir: hanno conquistato un prestigio enorme di fronte ai correligionari in tutto il mondo, ma per governare un paese stremato ci vorranno grande abilità e non pochi aiuti esterni.

 

Gastone Breccia è docente all’università di Pavia e autore di “Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan” (Il Mulino, 2020)