Dal conflitto con Hamas alla questione del nucleare iraniano. I dossier che il nuovo governo deve affrontare senza poter prescindere dall’eredità di Bibi

Grazie ad un accordo ad excludendum, traducibile anche come un pasticcio in cui otto partiti che più diversi fra di loro non si può si sono ritrovati concordi sull'unico proposito d'impedire a Benyamin Netanyahu di guidare per l'ennesima volta il governo d'Israele, e sul resto delle questioni più urgenti hanno scelto di tacere, tanto non si sarebbero trovati d'accordo su nulla, hanno raggiunto il loro obbiettivo e quello che era stato definito dai suoi inguaribili sostenitori “il re d'Israele”, titolo che il popolo della destra israeliana aveva già generosamente conferito ad Ariel (Arik) Sharon, è stato alla fine spodestato.

Al posto di primo ministro che il popolare Bibi aveva ricoperto per oltre dodici anni, un record superato forse soltanto dal fondatore dello stato ebraico, David Ben Gurion, arriva un personaggio incolore, di modesta statura politica, leader di un partito marginale nella galassia dell'estrema destra nazionalista religiosa, rivelatosi più abile ad arricchirsi con una start-up riguardante un sistema di sicurezza per le banche, che a progredire nella carriera militare abbracciata entusiasticamente nel mito di Yoni Netanyahu, il fratello di Bibi, l'eroico comandante dei Commando dello Stato Maggiore (Sayeret Matkal) morto ad Entebbe il 4 luglio del 1976 in quella che viene tutt'ora considerata come la più ardita operazione militare per la liberazione di ostaggi nella storia d'Israele.

Naftali Bennett, questo il nome del nuovo premier, era molto attratto anche dall'altro Netanyahu, il politico, al punto che quando nel 2005 Bibi ascese al vertice del partito conservatore, Likud, sebbene un Likud dissanguato dalla fuoriuscita di Sharon e dei tanti che lo avevano seguito nella nuova formazione da lui fondata, Kadima, dopo il ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza, anche Bennett entrò nel Likud e più tardi sarebbe diventato chief of staff, capo di gabinetto, di Netanyahu.

Ma per poco, perché la costanza dei legami politici non sembra essere una virtù del nostro, il quale nel 2009 capisce che potrà ottenere molto più da alleato che da seguace di Bibi e fonda la Casa Ebraica, il primo di una serie di partitini colonialisti e razzisti, accomunati dalla fede assoluta nella Terra d'Israele (Eretz Israel) e nella necessità di riscattarla strappandola ai palestinesi. Gli stessi estremisti che adesso accusano Bennett di aver tradito la causa, dando vita ad un governo con i “sostenitori del terrorismo”, allusione al partito arabo guidato dal leader palestinese-israeliano Mansour Abbass, entrato a far parte del governo che domenica scorsa ha ottenuto la fiducia.

Il governo del “minimo sindacale”, potremmo definirlo, dopo aver seguito attentamente il discorso programmatico pronunciato alla Knesset del nuovo premier e letto le interviste del co-fondatore della nuova maggioranza del “cambiamento”, Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid (“C'è un futuro”) una sorta di “Yes we can” all'israeliana.

Il nuovo governo, in realtà una specie di caleidoscopica alleanza di sinistra-centro-destra efficacemente riassunta nello slogan “con tutti tranne che con Bibi”, farà tutto quello su cui i suoi partecipanti sono già d'accordo, vale a dire qualche riforma, la ferrovia Gerusalemme-Tel Aviv, l'Università della Galilea, ovviamente amplierà gli investimenti militari, ma metterà da parte tutto il resto. Che non è poco.

L'incendio divampato il mese scorso tra Sheik Jarrah, Gaza e la Galilea, provocando l'ennesima guerra contro Hamas e la risposta mai così temeraria di Hamas contro il territorio israeliano con migliaia di razzi, i morti tra i civili palestinesi, gli scontri all'interno della  moschea Al Aqsa e i gravi incidenti tra  le due comunità scoppiati nelle città a popolazione mista araba ed ebraica, hanno rappresentato per il nuovo premier, Bennett, il “promemoria che il conflitto coi palestinesi è ancora qui”. Vero. È lì da quasi cento anni, e almeno 73, ufficialmente se solo si contano le guerre guerreggiate. Ma come intende affrontarlo il nuovo governo?

A sentire Bennett, sembra di riascoltare le frasi ripetute fino alla noia da Netanyahu, contro “i nostri nemici che negano la nostra stessa esistenza nella Terra d'Israele”. E questo a premessa che “non si tratta di un conflitto sopra la terra”, il che palesemente è. Ma per venirne a capo occorre “forza militare, resilienza e fede nella giusta causa”, che, par di capire, si tradurrà nel “rafforzare gli insediamenti in tutta la Terra d'Israele”, con un'enfasi particolare sulla parola “tutta”. Assieme al monito che, riecheggiando una frase del leader del Movimento revisionista ebraico, Vladimir Jabotinski, avverte Hamas di non provarci a mettere in dubbio la capacità di deterrenza israeliana, o sarà costretta a scontrarsi contro un “muro di ferro”.

 

Quanto all'Iran, idem: Israele non permetterà che la Repubblica islamica acquisisca la bomba atomica. Lo Stato ebraico si ritiene libero di agire. Perché, ha detto Bennett, “soffriamo ancora delle conseguenze sul nucleare che ha imbaldanzito l'Iran a suon di miliardi di dollari e gli ha offerto legittimazione internazionale”. Conclusione, che segnala una prima evidente dissonanza nei confronti di Biden e dei tentativi in atto da parte della nuova amministrazione di ricostruire il tessuto diplomatico che rese possibile il dialogo tra Usa e Iran,  “un nuovo accordo sarebbe un errore”. Accenno che a Netanyahu deve esser sembrato acqua fresca al confronto con le sue sparate contro il “peggior accordo diplomatico mai firmato nella storia”, i disegni sulla bomba sventolati all'Assemblea generale dell'Onu, l'odio manifestato verso Obama con l'insultante discorso al Congresso americano e, infine, il sostegno incondizionato offerto a Trump nella decisione di rompere un trattato che, anche secondo i servizi d'Intelligence americani, l'Iran aveva rispettato.

Così, il fantasma del sovrano deposto continuava ad svolazzare sugli scranni della Knesset resi invivibili dall'aggressività dei deputati ultra nazionalisti e, l'indomani, nei commenti dei giornali, impegnati ad accompagnare l'uscita di scena dell'ennesimo re d'Israele con un coro degno dell'occasione e dunque a riconoscere che c'era stato del buono nel suo lungo regno e non soltanto del marcio.

Anche se, certo, provocare quattro elezioni in due anni, attaccare frontalmente istituzioni che sembravano al di sopra della ciarla politica, come la magistratura, o la polizia, o alcuni Capi di Stato Maggiore, seminare la divisione nel paese accusando gli “arabi (israeliani) di marciare in massa verso le urne”, favorire l'estremismo dei gruppi razzisti e fanatici cui ha teso la mano e proposto alleanze, e tutto questo per evitare di finire sul banco degli imputati, questo, alla fine, è quello che ha provocato la rivolta di molta parte del mondo politico, mascherata da “governo del cambiamento”, e da “con tutti tranne che con Bibi”.

Ma come negare, altresì, i risultati ottenuti? Fra questi vengono elencati: la decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con l'evidente riconoscimento dell'annessione unilaterale della parte orientale della città e l'altrettanto unilaterale riconoscimento che trattasi della “capitale unita e indivisibile “dello Stato d'Israele; il riconoscimento americano della sovranità israeliana sulle alture del Golan, territorio siriano strappato alla Siria nella guerra del 1967; la “compartimentazione” del conflitto coi palestinesi per usare un termine che vorrebbe essere elogiativo adoperato dal New York Times, e la sua riduzione della resistenza contro la spietata occupazione militare a semplice problema di ordine pubblico; l'espansione degli insediamenti e infine, udite udite, gli accordi di Abramo che hanno permesso a Netanyahu di dimostrare quanto fondato fosse il suo assunto secondo cui non esiste alcuna questione palestinese che, se non risolta, impedirebbe la pace tra Israele e i Paese Arabi, perché Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan alla fine, hanno firmato accordi con Israele. Ovviamente non si dice che ad ognuno di questi paesi, gli Stati Uniti (Trump) hanno offerto importanti concessioni e che i palestinesi, cioè l'incarnazione vivente di uno dei più lunghi e sanguinosi conflitti della storia moderna, sono del tutto assenti dalla retorica degli accordi di Abramo stretti fra  i popoli discendenti del profeta.

Ad osservarle attentamente, le conquiste di Netanyahu sembrano altrettanti colpi mortali inferti al processo di pace, ma c'è da aggiungere che esse non sarebbero state possibili senza la condiscendenza degli Stati Uniti e il silenzio complice della comunità internazionale, paralizzata  dai ricatti di Trump. Ma quando è esplosa la guerra  di Gaza, l'ultima, davanti alle scene agghiaccianti dei palazzi sbriciolati sotto le bombe a guida intelligente americane esportate in israeliane, anche i quattro aderenti agli accordi di Abramo hanno minacciato di richiamare gli ambasciatori. Ma questo nessuno l'ha scritto.