Senza aprire un dialogo non c'è alternativa al conflitto. E anche quest'ultima tregua appare come un espediente per allentare le pressioni politiche e diplomatiche sui due contendenti. Il problema dunque non è se, ma quando ci sarà una nuova esplosione

Netanyahu si compiace, senza dimostrarlo, di aver “cambiato l'equazione con Hamas”. Di contro, i capi del movimento integralista che governano sulla distesa di macerie chiamata Gaza, mandano i loro giovani per le strade a festeggiare la “vittoria”. E la stesso copione trionfalistico e auto-assolutorio che si ripete da quasi vent'anni a questa parte ad ogni round di violenza tra Israele e Hamas. Anche quest'ultima tregua, come le precedenti, appare come un espediente per allentare le pressioni politiche e diplomatiche sui due contendenti; un modo per congelare lo status quo precedente; un modesto esercizio di diplomazia dilatoria che non si sogna neanche di affrontare le dure questioni alla base dello scontro. In questo quadro il problema non è se, ma quando ci sarà una nuova esplosione. Con un inevitabile corollario: la prossima guerra sarà peggiore di quella che l'ha preceduta.

 

Basta dare un 'occhiata alla contabilità del dolore. In dieci giorni di bombardamenti aerei e di artiglieria delle forze armate israeliane sulla Striscia di Gaza si son avuti 243 morti (di cui 63 bambini) e 1.910 feriti, in maggioranza tra i civili. Secondo i dirigenti di Hamas, sono state distrutte, o rese inagibili, 1.335 abitazioni; altre 12.800 sono state danneggiate. Il che ha provocato la fuga di 75 mila civili dalle loro case verso altre sistemazioni. Fra i danni, chiamiamoli così “collaterali” delle bombe di precisione telecomandate c'è Nahda, l'unica libreria e casa editrice della Striscia; la clinica al Rimal, con l'unico laboratorio di analisi capace di decifrare i test anti Covid; 33 redazioni e uffici di corrispondenza giornalistici; un orfanotrofio, 184 strutture necessarie al funzionamento dei servizi (acque, luce, fognature) che adesso sono ai minimi termini.

 

La potenza militare convenzionale israeliana, come la capacità della sua Intelligence, ha scritto il giornale liberal, Haartez, è sicuramente cresciuta, prova ne sia la distruzione dei tunnel di Hamas, ma la presunta cuera nell'evitare di colpire i civili, avvertendoli dell'imminente attacco, resta alla luce del bilancio delle vittime un'esercitazione propagandistica tutta da dimostrare. Le perdite tra la popolazione di Gaza, pur avendo avendo provocato indignazione negli ambienti democratici americani, non impediranno, comunque, la fornitura di altre micidiali bombe intelligenti made in Usa per 735 milioni di dollari.

 

Anche le milizie di Hamas appaiono oggi più agguerrite e meglio equipaggiate che in passato. I razzi lanciati contro le zone abitate israeliane (4.000 ordigni, secondo il portavoce dell'Idf, che hanno provocato 12 morti e un centinaio di feriti) non sono più i “Kassam” fatti in casa degli inizi degli anni '90. Anche se i nuovi “Ayash” (a quanto pare così chiamati in omaggio all'inventore degli attentati con le cinture esplosive messi a segno negli anni '90, Yijieh Ayash, soprannominato dalla stampa israeliana “l'ingegnere”) non sono in grado di superare la barriera del sistema antimissile “Iron Dome”, se non in minima percentuale, pare comunque che siano capaci di portare più testate. In Israele si dice che vengano dall'Iran, anche se l'ala militare di Hamas ha dimostrato di essere in grado di produrre le sue armi.

A favorire le più fosche previsioni sul futuro di questo conflitto tra Israele ed Hamas, che è parte del più ampio scontro israelo-palestinese, è anche la manifesta incapacità delle due parti di parlare un linguaggio diverso da quello della violenza. Durante il suo lungo regno, giunto ormai al dodicesimo anno, Netanyahu è qualche volta sceso a compromessi con il nemico islamista. È successo, per esempio, nel 2011 quando ha accettato di liberare 1.200 detenuti politici di Hamas in cambio della liberazione del soldato Shalit, tenuto in ostaggio per sei anni. Ma subito dopo ha nuovamente optato per la guerra. Come nel 2014: tre o quattro tentativi di mediazione andati a vuoto, poi l'operazione “Margine di sicurezza”, sempre contro Gaza, conclusa dopo 50 giorni, con oltre duemila morti tra i palestinesi e 170 fra gli israeliani.

 

A maggior ragione, dopo aver visto il suo potere personale insidiato dalle inchieste della magistratura, Netanyahu non ha minimamente pensato di cambiare la sua strategia che resta sempre la stessa: indebolire e delegittimare il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, la cui credibilità è ormai prossima allo zero, dopo aver annullato la decisione di tenere le elezioni attese da 14 anni, e lasciare che Hamas governi, per così dire, a Gaza. Un territorio accerchiato e sbarrato come una prigione, isolato, impoverito, dove due milioni e mezzo di persone non possono che lottare per sopravvivere. Quanto all'ipotetico Stato palestinese che per anni è stato evocato nei negoziati seguiti agli accordi di Oslo del 1993, l'occupazione militare, nonostante la condanna della comunità internazionale e il via libera alla colonizzazione dei Territori occupati, bandiera delle estrema destra nazionalista e religiosa ascesa con Netanyahiu al governo, lo hanno materialmente fatto scomparire dai radar. Ma tutti sanno, che senza aprire un dialogo con Hamas non c'è alternativa alla guerra.