Migliaia di migranti tentano di entrare ma vengono respinti dai militari di Orbàn. Il racconto delle loro vite appese a un filo. (Foto di Gábor Ancsin)

«Ha saltato, lato est, prendetelo». Nel buio della steppa ungherese una decina tra militari e poliziotti inseguono i migranti che provano a scavalcare l’inferriata. E qualcuno sembra ci sia riuscito. Mentre la poliziotta tiene sotto tiro tre ragazzi, un militare con il cane insegue il fuggitivo, che ora sta correndo verso l’Ungheria. È riuscito ad entrare in Europa. Almeno per ora. Ma un elicottero, donato dal governo tedesco, sta puntando un gigantesco faro sulla vegetazione e il ragazzo non ha molte speranze di nascondersi a lungo. Sono le 4 del mattino e questa volta la storia comincia dalla fine. Siamo a Röszke, confine tra Ungheria e Serbia, proprio dove passa la doppia recinzione di ferro e filo spinato che il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha fatto costruire tra il 2015 e il 2017. A pochi metri comincia il territorio serbo, ma quel corridoio centrale è terra di nessuno.

 

Giuridicamente è territorio ungherese, certo, ma in quel perimetro tutte le leggi europee sul diritto dei migranti svaniscono. Ed è proprio lì, tra le due inferriate, che polizia e militari pattugliano avanti e indietro per bloccare ogni tentativo di accesso. I migranti lo chiamano il “little game” e comincia intorno a mezzanotte, quando tutti insieme provano ad arrampicarsi sulle grate, in alcuni punti strategici della barriera. «Állj meg, ne mozdulj». «Fermati, non ti muovere». I poliziotti con le torce illuminano i ragazzi che sono in cima a scale di metallo, mentre un cane fiuta i movimenti nel buio. E i migranti urlano, per farsi coraggio, per dare un segnale, per dire dove sono. Se qualcuno riesce a scavalcare il primo step, viene raggiunto da una guardia che gli intima di alzare le mani e di inginocchiarsi per terra.

 

Io, dal lato esterno della barricata, osservo la scena col cuore in gola. I due ragazzi che sono stati beccati vengono scortati poco più avanti e si siedono sul ciglio della strada, proprio davanti a me. «Da dove venite?», chiedo. «Afghanistan» risponde il ragazzo a fior di labbra. Ha paura che il poliziotto di fronte gli faccia del male. Si gira a guardarmi ogni pochi secondi. «Voglio andare in Germania, ti prego, in Germania. Ti prego, aiutami».

 

Lo dice con un filo di voce. Ma io sono dall’altro lato della rete, dal lato fortunato, solo per destino. In pochi minuti, altri due ragazzi vengono portati in manette sullo stesso gradino, nel corridoio interno, mentre una pattuglia scarica per terra tre ragazzini terrorizzati. Stanno chini, con la testa bassa. Quando la torcia della poliziotta li illumina in pieno viso, scorgo del sangue, forse uno di loro è stato colpito. Ma a nessuno del corpo di sorveglianza ungherese sembra importare che io sia lì a documentare tutto. «Così almeno la gente sa cosa succede davvero di notte», dice uno degli agenti. Orbàn racconta che l’emergenza migratoria non esiste più grazie a lui, che i sacri confini dell’Ungheria sono intatti e che nessuno si azzarda più ad avvicinarsi, perché tutti sanno che non si passa. «Per gli ungheresi quello dei migranti è un problema vecchio, neanche uno sa che la pressione è ancora alta», dice ancora l’agente. Sono arrabbiati con il governo, perché sono pochi e sottopagati.

 

 

Un ragazzo è rimasto impigliato in un tratto di filo spinato e ha la luce accecante del poliziotto sparata in faccia. E allora si lascia cadere all’indietro, di nuovo in Serbia. Ci riproverà domani. Sono ormai le cinque del mattino e non appena la notte comincia a schiarirsi i ragazzi abbandonano l’impresa e tornano nella jungle serba. Chi è stato preso, nonostante gli appelli per un avvocato o per la richiesta d’asilo, viene respinto indietro e ritorna al punto di partenza.

 

Quello che accade tra Ungheria e Serbia è molto simile a quello che è successo tra Polonia e Bielorussia, anche se i flussi al momento sono meno imponenti. Ma sofferenza e difficoltà sono le stesse. Alcuni dei migranti li incontro nel pomeriggio a Horgoš, piccola cittadina della Serbia a pochi chilometri dall’Ungheria. Ho passato la dogana mostrando il mio passaporto senza problemi, per vedere cosa succede dall’altra parte della barriera di Orbàn. Sono le tre del pomeriggio e lungo le strade, con sacchetti di plastica pieni di pane e bottiglie d’acqua, ci sono gruppetti di ragazzi, sembrano tutti molto giovani.

 

Ci fermiamo a chiacchierare con loro. «Siamo afghani, siamo qui da tre mesi. Adesso andiamo nella jungle per riposarci e poi stasera proviamo di nuovo il game». Ayaht è arrivato in Serbia attraversando l’Iran, la Turchia, la Grecia e la Bulgaria e ora vuole andare in Belgio, perché c’è qualcuno della sua famiglia che lo aspetta. Ma non riesce a passare, nonostante abbia anche pagato un contrabbandiere. «Gli ho dato tutto quello che avevo, tutto quello che ho racimolato guadagnando lungo il viaggio» spiega Ayaht.

 

Lungo la strada incontriamo altri gruppetti di ragazzi, anche loro afgani, anche loro diretti verso la vegetazione più fitta che circonda quella parte di muro. Intanto sta per fare buio e i ragazzi non hanno più molta voglia di chiacchierare. Devono dormire e mangiare prima che scatti l’ora X. Li salutiamo e riprendiamo la strada in direzione nord-est, per seguire il perimetro della barriera fino al confine con la Romania. Siamo a Ràbé, la temperatura è scesa a 0 gradi e intanto sono le 18, ed è buio pesto nella campagna serba. Solo un fuocherello attira l’attenzione e andiamo a vedere chi c’è. Prima ancora di scorgere il volto, sento il ticchettio dei denti che battono.

 

«Marhaban», «Ciao». L’uomo scatta in piedi perché pensa che siamo contrabbandieri, ma poi si rilassa. «Sono siriano, ma non sono solo, siamo in tanti, ci sono anche due famiglie. Vieni, vieni». Pochi passi, illuminati solo dallo schermo del telefono, mi conducono in un inaspettato e terrificante accampamento. All’interno di una stalla abbandonata ha trovato rifugio una trentina di persone. Si scaldano con fuochi alimentati con la legna e il fumo invade la stanza, tanto che ci vuole un minuto per abituarsi.

 

Non sono vestiti adeguatamente per quelle temperature rigide, non hanno cibo e hanno pochissima acqua. Alcuni di loro sono feriti, perché hanno provato il game e i poliziotti li hanno malmenati. «I militari rumeni danno i calci, colpiscono con le mazze», raccontano i ragazzi mentre mi conducono sempre più all’interno della stalla. E poi compare lei, spaventata, con un bimbo tra le braccia e una bimba accovacciata accanto, attorno al fuoco. Quando è scappata dalla Siria, dopo che la sua casa è stata sbriciolata dalle bombe, Habiba non credeva che sarebbe finita in una stalla, col terrore di far morire di freddo i suoi figli.

 

Col marito hanno provato a passare in Ungheria e in Romania ma non c’è stata pietà, nessuna possibilità. E così, respinti e maltrattati, sono rimasti lì, in quel tugurio. Senza nulla e senza speranza. Ironia della storia, a pochi metri, nel centro del villaggio, in una capanna prefabbricata è rappresentata la sacra famiglia che proprio a Natale si celebra e si onora.

 

 

«Noi non siamo animali, siamo essere umani. Non abbiamo nessuna colpa se non quella di aver subito guerra e terrorismo». Ahmad al Ali era un professore di lingua e letterature europee all’università di Damasco, infatti parla perfettamente spagnolo e francese. E ora è lì, anche lui a tentare di arrivare in Europa, per chiedere asilo e ritornare ad essere quello che era. «Non un insetto che tutti vogliono schiacciare perché da fastidio ed è pericoloso, ma un uomo», dice Ahmad a nome di tutti i ragazzi che sono lì. «Ti prego, fai qualcosa per noi, dici a tutti cosa accade qui». Non so se i miei occhi bruciano per il fumo e l’odore acre o perché ci si sente in difficoltà, impotenti di fronte a una Europa che non piace e non si riconosce.

 

Tornando verso l’uscita, vediamo un gruppo di cinque ragazzi che si prepara per riprovare a passare la trincea e chiediamo se possiamo seguirli, fino a che si può. Accettano e allora ci incamminiamo insieme fino alla jungle, per vedere cosa succede davvero. Dieci, quindici minuti di cammino e ci ritroviamo sotto la cancellata, con un cielo stellato incredibile e gli occhi dei contrabbandieri addosso.

Sono minacciosi, credono che siamo intrusi e quindi siamo costretti ad allontanarci un po’. Solo uno di loro non sembra particolarmente ostile e accetta di raccontare come funziona il loro traffico. «Qui a nessuno importa quello che facciamo, non è contro la legge. Noi chiediamo soldi in base a quello che possono pagare. Come i pacchetti turistici». Altro che turismo… Lui ridacchia. «È solo business». Per cinquemila euro, il contrabbandiere indica la strada migliore per passare il muro, dà un numero di telefono di un contatto in Ungheria e di uno in Austria, per passare anche quel confine lì. Servizio completo. Per tremila euro c’è solo il passaggio in Ungheria e l’indicazione di una casa sicura. A mille euro solo una indicazione generica di un punto vulnerabile della recinzione. E così via fino a qualche centinaia di euro.

 

«Per trecento gli diciamo vicino a quale pietra numerata devono mettersi, per provare a passare in un momento in cui le guardie non ci sono». I contrabbandieri hanno monitorato i pattugliamenti, cronometrato il tempo in cui un determinato punto del confine resta relativamente senza sorveglianza e così hanno le informazioni da vendere. I migranti non sanno che sono quasi tutte frottole. Le barriere di metallo, infatti, hanno sensori che accendono automaticamente i fari, fanno partire le registrazioni e l’allarme allerta immediatamente le pattuglie. Che quindi arrivano. Quelli che riescono a saltare sono pochissimi, e comunque vengono presi e rispediti indietro. Intanto, hanno perso tutti i soldi. Anche qui è una trappola, un vortice che inchioda, senza via d’uscita.

 

L’Ungheria vìola tutte le norme europee sull’accoglienza dei migranti e in un corridoio di terra, che il governo di Orbán ha definito terra di nessuno, respinge tutte le richieste d’asilo e d’aiuto dei migranti. «In teoria è di otto chilometri dal confine l’area in cui qualsiasi migrante viene respinto senza appello in Serbia. Ma in realtà tutto questo succede anche al di fuori di questi otto chilometri e in generale in tutta l’Ungheria, anche se è contrario alla legge europea», spiega Zsolt Szekeres, avvocato e coordinatore del programma per i rifugiati dell’Hungarian Helsinki Committee. L’associazione è una delle uniche che ancora si occupa dei migranti nel Paese ed è nel mirino della legge “Stop Soros” varata da Orbán nel 2018.

 

«Le cose in Ungheria sono davvero molto complesse», spiega l’avvocato Szekeres: «Anche se qualche settimana fa la Corte di giustizia europea ha accolto il ricorso di Bruxelles contro queste leggi, il governo non le cambierà. Con il suo partito Fidesz, Orbán controlla tutto il parlamento e non c’è margine perché cambi qualcosa da qui al medio-lungo periodo». I diritti dei migranti continueranno a essere calpestati, la loro vita resterà appesa a un filo, nell’indifferenza di molti. Appena inizia ad albeggiare, la situazione torna tranquilla lungo il muro, sia sul lato serbo, sia sul lato ungherese. Sono le 8 del mattino, la campagna è immobile di brina e silenziosa, anche se restano le tracce dei movimenti notturni. Alle grate di ferro o al filo spinato restano appesi guanti, pezzi strappati di pantaloni, persino scarpe di chi ha tentato fino alla fine di fuggire vero la libertà. E non ci è riuscito.