La giornalista e attivista per i diritti umani, detenuta dal 2016 in condizioni sempre più intollerabili, è in isolamento e non può neppure telefonare. Ora i suoi ragazzi parlano via Facebook: «Aiutateci a sentire di nuovo la sua voce»

Kiana e Ali sono i figli gemelli di Narges Mohammadi, giornalista e attivista per i diritti umani detenuta in carcere in Iran dal 2016. Sanno che la madre, insieme ad altre dodici prigioniere, è stata contagiata dal virus ma non ha accesso a cure. Così come sanno che è detenuta in condizioni difficili, senza assistenza medica né accesso a una corretta alimentazione, isolata nel carcere e con il divieto di fare telefonate. Nessuna eccezione, neppure ora che ha contratto il Covid le è stato permesso di telefonare ai figli.

Il video con il loro appello è stato pubblicato sulla pagina Facebook di Taghi Ramhadi, marito dell’attivista, rifugiato a Londra: i ragazzi chiedono aiuto per poter sentire di nuovo la voce della madre dopo un silenzio durato undici mesi.



Narges Mohammadi, 48 anni, è attualmente prigioniera di coscienza nel carcere iraniano di Zanjan, dove è stata trasferita sei mesi fa.
Collaboratrice di Shrin Ebadi, Premio Nobel per la pace nel 2003, è portavoce e vicepresidente del Centro per la difesa dei diritti umani in Iran e presidente del comitato esecutivo del Consiglio Nazionale della pace dal 2008. Attiva in difesa dei diritti umani fin dai tempi dell’università, nel 2009 vinse il premio Alexander Langer, conferito a persone che con il proprio lavoro attraverso “scelte coraggiose, indipendenza di pensiero, forte radicamento sociale, siano capaci di illuminare situazioni emblematiche e strade innovative”.

Già condannata al carcere nel 2012 era poi stata rilasciata per le sue precarie condizioni di salute. La donna è infatti gravemente malata, soffre di embolia polmonare e di un disturbo neurologico. Nonostante ciò nel 2015 è stata nuovamente arrestata con l'accusa di "attività di propaganda contro il regime", "campagne per l'abolizione della pena di morte" e "cospirazione per commettere crimini contro la sicurezza del paese”. Colpevole in realtà di essersi battuta pubblicamente in difesa dei diritti delle donne e per l’abolizione della pena di morte nel suo Paese, nel 2016 le viene inflitta una condanna a 16 anni.

L’Iran è uno dei Paesi mediorientali maggiormente colpiti dal Covid. Sono 14.634 i decessi confermati e se finora i dati ufficiali parlavano di quasi 270 mila contagi, uno studio pubblicato negli ultimi giorni dal ministero della Salute iraniano stima il possibile numero dei contagi in 25 milioni.
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La drammaticità della situazione era già stata denunciata in una lettera dalla stessa Narges Mohammadi.
L’attivista iraniana ha scritto che a inizio luglio alcune tra le diciotto donne detenute nel carcere hanno iniziato ad avvertire sintomi da Covid-19. Solo l’11 luglio sei donne rimaste asintomatiche sono state portate in un’ala separata della struttura, mentre lei e le altre undici sintomatiche sono state lasciate dov’erano, in quarantena e senza cure.

In seguito al peggioramento delle loro condizioni di salute e alle forti pressioni dei familiari, tutte le detenute sono state sottoposte al test, ma non hanno mai ricevuto i risultati; intanto una di loro, particolarmente grave, è stata trasportata in ospedale ed è risultata effettivamente positiva.

«Noi 12 donne presentiamo sintomi di affaticamento eccessivo e dolore addominale, diarrea, vomito, perdita di olfatto. Non abbiamo accesso alle cure adeguate né ad una alimentazione corretta. La mancanza di strutture mediche, la mancanza di spazio per la quarantena per nuove entrate e la mancanza di controllo sanitario ha causato la diffusione del coronavirus», ha scritto l’attivista iraniana. «Chiedo al Signor Namaki, Ministro della Sanità, di inviare un rappresentante per prendere visione della situazione nella prigione femminile di Zanjan».

Critica fin dall’inizio della pandemia la situazione nelle carceri del Paese, dove sono detenute circa 189 mila persone. Proprio per contenere i contagi di massa nelle carceri, la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, aveva ordinato a metà marzo la liberazione temporanea di migliaia di detenuti, ma non della Mohammadi.

Lo scorso aprile una delegazione delle Nazioni Unite ha chiesto in una lettera indirizzata alla Repubblica islamica dell’Iran di estendere la liberazione anche ai prigionieri politici. Per tutta risposta invece la Magistratura ha fatto sapere, per mezzo del suo portavoce, Gholamhossein Esmail, che la misura di liberazione avrebbe riguardato solo chi stava scontando una pena inferiore ai 5 anni e sicuramente non i detenuti politici, considerati “spie” o “terroristi”. Non solo, l’attivista fa sapere che sono state anche inasprite le misure detentive per i prigionieri avversi al regime: «In questo periodo, per esplicita richiesta del Ministero dell’Intelligenza e della Magistratura, non mi consentono né di comprare carne a mie spese né di sentire i miei figli per telefono» ha scritto nella sua lettera di denuncia.

L'appello di Ali e Khali è stato già accolto dalla Fondazione Langer