È l'autore del sito Mosul Eye e da oltre due anni racconta su Internet, di nascosto, la città occupata dal Daesh. Oggi ne testimonia la battaglia finale. L’Espresso lo ha intervistato. "Il mio è un dovere civile"

Si sta concludendo in questi giorni la seconda fase dell’offensiva per liberare Mosul, la capitale irachena del Califfato. I quartieri della riva occidentale del Tigri sono ancora sotto il controllo di circa 5 mila jihadisti, mentre secondo l’Onu oltre 700 mila civili sono nella morsa dei combattimenti, privi di cibo ed energia elettrica.

Il racconto più vivido e autentico della guerra in corso passa attraverso un blog, “Mosul Eye”, che da due anni documenta la vita sotto la Sharia e la resistenza della città. Nessuno conosce l’identità del suo autore, che per ovvi motivi di sicurezza scrive post in modo anonimo, ma L’Espresso è riuscito a rintracciarlo e a parlargli, via Internet. «D’accordo, mi fido. Ti dico dove sono adesso e perché. Ma ti prego di non dirlo a nessuno», è il suo messaggio, arrivato a notte fonda su WhatsApp. E poi: «C’è libertà nel buio. Uno è confinato dentro il sacco amniotico dove si trova solo e non ha bisogno del permesso, l’aiuto o l’approvazione di nessuno», cita da “Lettera ad un bambino mai nato”, precisando la pagina della sua copia tradotta. È lo spunto per spiegare il suo «dovere di raccontare», di come si sia camuffato per farlo, dentro quel buio. «Io sono uno storico indipendente, nato e cresciuto a Mosul», dice di sé il suo autore, e nulla più di questo. Affiancato da un gruppo di dissidenti e una rete di contatti, è ritenuto “reale” da giornalisti, analisti e studiosi di Medio Oriente. Un’identità, ha detto lo studioso Rasha Al Aqeedi al The New Yorker, che incarna la prospettiva di una «giovane intellighenzia di Mosul: la volontà di rileggere l’Islam e la questione religiosa lungo narrazioni storiche».

L’unica certezza, comunque, è che qualcuno scrive, in un blog su Word- press collegato ad account su Facebook e Twitter, aggiornamenti in arabo e in inglese che mescolano cronache di vita quotidiana, esecuzioni pubbliche, notizie sulle strade più sicure, aumenti dei prezzi, appelli e bombardamenti, a riflessioni sospese tra volontà e disperazione sulla libertà, la giustizia e la religione. E il male. Il 6 novembre scorso, nel post dal titolo “Oblivion”, sui miliziani di al-Baghdadi, si legge: «Vedo la paura dei loro occhi, sento il grido che esce dal loro petto e li sento dire a se stessi “che diavolo abbiamo fatto e ottenuto per noi?”. Sono corpi morti che camminano». Quel giorno hanno decapitato uno dei suoi più cari amici. Non si può mentire su dolori così lucidi e “Mosul Eye” viene condiviso da ragazzi in tutto il mondo. Ancora: «Ho visto e vissuto più che a sufficienza. Ho visto teste tagliate, braccia amputate, persone buttate giù dalla sommità degli edifici, gettate sui sassi. Ho visto le loro anime cercare di trattenere il proprio corpo, ma i corpi erano così lacerati da non contenere le proprie anime».

In questi giorni i post aggiornano di ora in ora sulle operazioni della seconda fase dell’offensiva per liberare la città, lanciata dall’esercito di Baghdad insieme a peshmerga curdi e milizie sciite. L’obiettivo è la conquista della sponda occidentale del Tigri, ancora controllata dall’Isis. Sul blog ci sono foto e video di documenti e di carte abbandonate dagli islamisti, le gallery dei ragazzi che ripuliscono edifici e ospedali, ma anche gli aggiornamenti sulla campagna per donare libri con cui ricreare la biblioteca centrale incendiata. Un po’ nascosta, c’è la foto della postazione dalla quale il blogger scrive: due computer, tè, cenere e sigarette. Frutta. Un cd di Beethoven. Questa è l’intervista che ci ha concesso.

Che cosa sta succedendo in queste ore a Mosul?
«Il dispiegamento dei combattenti Isis più imponente è nei quartieri storici. Hanno anche aperto le abitazioni lungo il fiume per usarle come passaggi sicuri. Altre case, con le famiglie tenute come ostaggio, sono utilizzate come bunker militari e magazzini. Una delle aree più vulnerabili è Al-Shahwan, vicino alla fortezza di Bashtabiya, diventata base militare. Da Hawi Al-Kanisa, l’Isis fa partire i suoi droni. Ci sono anche molti cecchini in quella zona. Di droni ora ne vengono fabbricati anche otto al giorno, gli ultimi tipi contengono esplosivo e possono sostituire gli attacchi suicidi. Ma molti combattenti del Califfo sono fuggiti in Turchia attraverso una strada a ovest della città».

E i civili?
«La situazione umanitaria è catastrofica. Il cherosene è a 20 mila dinari iracheni al litro (circa 16 dollari) e le persone non possono permettersi di acquistarlo. Un chilo di patate costa 25 mila dinari iracheni (20 dollari), come le cipolle. Il prezzo di un chilo di riso è 30 mila dinari (25 dollari). E non c’è sicurezza. I combattenti dell’Isis che vogliono disertare si tagliano le barbe e nascondono le divise per mescolarsi ai civili, circolando ovunque nelle zone liberate».

Che rapporti hai con quelli dell’Isis? Nel blog hai scritto di avere ricevuto minacce, ma anche di essere entrato in contatto con molti di loro.
«Penso che i membri dell’Isis siano molto manipolabili. Ho studiato e raccolto documenti sulla storia della presenza dei gruppi terroristici a Mosul dal 2003, è bastato citare alcuni episodi e circostanze del passato e dimostrare la mia conoscenza dell’Islam e del Corano per poter avere la fiducia di molti di loro e ottenere anche informazioni sensibili. Ma ho avuto lo stesso paura. Allora ho cominciato ad andare nelle loro moschee e sentire le lezioni, discutendo con loro nei mercati e in strada per mostrarmi devoto alla Sharia. Comunque sì, ho anche ricevuto minacce e ne ricevo ancora adesso, come “Ti uccideremo in un modo ancora sconosciuto all’umanità”».

Com’è vivere sotto l’Isis?
«La quantità di orrore che ho vissuto negli ultimi due anni va oltre ogni possibile descrizione».

L’Isis è ancora forte?
«No. È sempre meno forte, sta crollando perché ha esaurito la sua capacità di combattere».

Mosul è una città cruciale. Per l’Isis come per l’Iraq. Perché?
«Mosul non l’avete mai capita. Ha una sua identità, una sua armonia multiculturale e un sistema sociale totalmente diverso dal resto dell’Iraq. Suggerisco di leggere Dina Rizk Khoury in “State and Provincial Society in the Ottoman Empire: Mosul, 1540-1834” o gli studi di Peter Sluglett, che lega la città al sud della Turchia e alla Siria. Ibn Jubayr del suo viaggio a Mosul invece ha scritto: “Questa città è grande e antichissima, fortificata e maestosa e preparata contro i colpi delle avversità”. La gente di Mosul vuole ritrovare quell’identità che Saddam Hussein, Al Qaeda, l’ex presidente Al Maliki e infine l’Isis le hanno rubato».

Allora sei d’accordo con l’ipotesi di dividere l’Iraq?
«Non sto parlando di queste vecchie discussioni o di unirsi alla Turchia, lo dico da un punto di vista psicologico, sociale e sociologico. In questi ultimi due anni la città è sopravvissuta soltanto grazie ai commerci anche petroliferi con Aleppo, che l’ha aiutata a superare tutti i vincoli imposti dalla capitale dopo l’invasione».

Ma Mosul è stata anche la seconda capitale del Califfato…
«Non so se sia stato condotto un vero studio scientifico sui gruppi armati di Mosul dopo il 2003. Ci sarebbero sorprese. Non esiste un solo cittadino di Mosul che abbia preso parte a gruppi terroristici. Sono state le tribù rurali che hanno costruito le fondamenta del terrorismo, qui. Lo scontro tra la società civile urbana e il mondo rurale, scaturito dopo la fine del regime di Saddam, ha favorito il secondo e radicato i gruppi terroristici».

Che cosa vogliono adesso i cittadini di Mosul?
«Vogliono riavere indietro il loro potere sulla città. Questo non è possibile se non con un accordo internazionale e un periodo di transizione sotto protezione. È la premessa per ricostruirla, in sintonia con la sua storia e la sua gente».

C’è fiducia verso Baghdad in questi mesi?
«Con l’esercito c’è un buon rapporto, grazie al modo in cui ha interagito con noi durante le operazioni. Uno dei nuovi eroi è il generale Abdulwahab Al-Sa’adi. La fiducia non è un problema quando i militari trattano gli abitanti di Mosul in modo equo e giusto. Il problema è il futuro».

Già, chi governerà la città? E chi è in grado di ricostruirla?
«La ricostruzione è la più grande incognita. Il futuro è tutto incerto e vago. Abbiamo bisogno di sforzi e di pianificazione per ricostruire e rilanciare Mosul sul piano internazionale. Ci sono problemi persistenti di sicurezza, la paura per i gruppi sciiti, per il ritorno dei cristiani. Ci piacerebbe veder tornare i cristiani, sono parte fondamentale dell’armonia civile della futura città».

E per estirpare l’Isis?
«Bisogna combattere ogni forma di radicalizzazione. Molti bambini qui sono stati istruiti con queste idee, se non facciamo qualcosa saranno i futuri mostri. E anche molti adolescenti hanno in testa quella che i terroristi hanno fatto loro credere fosse la vera religione. Ho paura di questo».

Cosa ti aspetti da Donald Trump?
«Le sue recenti uscite sul mio Paese qui hanno sollevato molte preoccupazioni. Ha in progetto di ignorare l’Iraq, fatta eccezione forse per le sue risorse, cosa che porterà a nuove violenze. Gli Stati Uniti sono ancora un alleato strategico per l’Iraq, ma abbiamo la necessità di conoscere quanto siamo strategici noi per le loro politiche in Medio Oriente».

Un’ultima domanda, su di te: perché hai iniziato a scrivere il blog? E perché continui a scriverlo, rischiando la vita?
«Ho deciso di documentare ogni evento dal primo giorno dell’invasione. Sapevo che a ogni post sarei stato assalito dalla paura perché non solo io potrei essere ucciso se venissi scoperto, ma anche la mia famiglia e i miei amici, se dimostrata la loro complicità con me. Ma ho sentito la responsabilità di raccontare e far passare in qualche modo alla storia il fatto che la mia città non ha ceduto al terrorismo. E che qualcuno si alzava in piedi».