Non solo il filo spinato intorno al confine. Budapest ha varato anche una serie di leggi per rendere più difficile la vita ai profughi. E nei confronti di chi non le rispetta ricorre a misure drastiche e violenze. Come l’Espresso è in grado di dimostrare (Foto di Alessandro Galluzzi)

Khurram Shahzad si aggira per la stazione degli autobus di Subotica, Serbia settentrionale al confine con l'Ungheria, con l'aria spaesata e l'espressione dolorante. È pachistano, ha 30 anni e due grandi cerotti gli coprono gran parte della testa. Anche lui, come tanti altri che vorrebbero fare richiesta d'asilo in Europa, è venuto qui dalla vicina tendopoli - dove sono ammassati a centinaia in precarie condizioni igieniche - per prendere un po' di verdure e ortaggi: quelli che un paio di volte a settimana i volontari distribuiscono gratuitamente per rimpinguare gli scadenti pasti che vengono forniti, a base di sardine in scatola e mortadella in gelatina.

Le ferite sul cranio di Khurram sono frutto delle manganellate della polizia ungherese. Ha provato a scavalcare con una decina di connazionali il filo spinato che il premier nazional-conservatore Viktor Orban ha fatto srotolare lungo i 175 chilometri al confine con la Serbia ma quando pensava di avercela fatta, sono arrivate le botte. «Siamo andati da Sombor alla frontiera in taxi e ci siamo fatti lasciare in una stradina secondaria, a ridosso di una zona poco controllata» racconta in un buon inglese: «Abbiamo scavalcato la barriera e camminato per otto ore consecutive, poi ci siamo addormentati in mezzo a un campo. All'alba ci ha svegliato la polizia: ci hanno spruzzato dello spray urticante negli occhi, poi hanno iniziato a prenderci a manganellate e a farci attaccare dai cani».



Khurram mostra le foto che coi compagni si sono scattati subito dopo le violenze per documentare quello che era accaduto: lui ridotto a una maschera di sangue, più altri scatti che testimoniano le ferite provocate dai morsi dei cani poliziotto a una mano e dietro un ginocchio. Prima di rispedirli dall'altra parte, gli ungheresi non li hanno nemmeno fatti medicare: ci ha dovuto pensare la Croce rossa serba a portarli al pronto soccorso.

A Safder Hussein, 34 anni e anche lui pachistano, qualche giorno prima era andata pure peggio. Anche economicamente. Dopo aver pagato 500 euro a un serbo che gli aveva promesso di portarlo al di là del confine, è stato abbandonato nei campi assieme a un connazionale. In cambio dei mille euro ottenuti, l'uomo che doveva condurli in Europa alla fine si è limitato ad aprire un varco nel filo spinato con delle cesoie. «Andate tranquilli, da questa parte i controlli non ci sono», le sue ultime parole prima di scomparire inghiottito dal buio. «E invece c'erano eccome: la polizia ci ha fatto stendere a terra e ci ha sciolto contro i cani» racconta Safder ancora scosso. Poi, come a voler confermare che non sta affatto mentendo, si cala i pantaloni e mostra il segno inequivocabile di un morso su una coscia. Anche in questo caso, niente ospedale: ributtato senza troppi complimenti oltreconfine, le prime cure del caso e gli antibiotici le hanno fornite i serbi.

PUGNO DI FERRO
Non si tratta di casi isolati. Le violenze su chi cerca di entrare illegalmente in Ungheria sono all'ordine del giorno. Scavalcare il filo spinato può costare fino a quattro anni di carcere e da Budapest il ministero della Giustizia ha spinto perché a questi casi fosse data la priorità nei tribunali. Solo che servono giudici, avvocati d'ufficio e soprattutto, per arrivare a una condanna, la confessione del reo o la testimonianza della polizia. Troppo tempo, troppo costoso. E così dallo scorso luglio il Parlamento, su input del governo, ha trovato una soluzione molto più economica: una legge consente di riportare in Serbia tutti i migranti trovati illegalmente in un raggio di otto chilometri dal confine. Tanto nessuno se ne accorge o ha modo di protestare se poi i chilometri sono nove o dieci. Proprio come accaduto a Khurram, al quale (pur conoscendo la legge) non è bastato camminare tutta la notte per evitare il respingimento. «È più facile picchiarli e rimandarli indietro che affrontare le procedure previste dallo stato di diritto» afferma Lydia Gall, la ricercatrice di Human Rights Watch che per prima, nei mesi scorsi, ha documentato le violenze sistematiche della polizia. «In pratica viene legalizzato l'illegale: aprono i cancelli che intervallano con regolarità il reticolato e lo richiudono alle spalle del profugo di turno. Quasi sempre dopo una buona dose di manganellate, perché sia da monito per gli altri. Semplice no? L'assunto di base è che se il trattamento è duro e le condizioni di vita cattive, i migranti sono spinti ad andare altrove».

E che le condizioni siano cattive non c'è dubbio. Dal lato serbo, centinaia di persone sono ancora ammassate sul confine meridionale, compresi tantissimi bambini. Vivono in condizioni sub-umane, con poca acqua potabile e - finché non si è offerta di portarli l'associazione Oltalom, vicina alla chiesa metodista - fino a pochi mesi fa senza nemmeno i bagni chimici. Anche se la rotta balcanica non si è affatto interrotta (in Serbia arrivano 200-300 persone al giorno dalla Bulgaria e adesso iniziano ad arrivare anche dall'Ucraina) le autorità ungheresi se la prendono comoda: accolgono solo 30 richieste di asilo al giorno e in media ci vogliono tre mesi solo per poter presentare le domande. Quasi tutte puntualmente respinte, anche per chi proviene da paesi in guerra come Siria o Iraq: nel primo quadrimestre del 2016, certifica l'Eurostat, con appena il 4 per cento Budapest ha avuto uno dei tassi di accoglimento più bassi di tutta la Ue. Solo la Croazia ha fatto peggio.

Se la parte amministrativa va a rilento, la militarizzazione voluta dal premier Orban è ben più efficiente: filo spinato, torri di guardia ogni 200 metri, agenti che scrutano col binocolo ogni minimo movimento degli arbusti al di là del reticolato. Una roccaforte nel nulla della campagna ungherese, presidiata giorno e notte, mitra in spalla, da 10 mila fra poliziotti e militari. Come nella Fortezza Bastiani del "Deserto dei tartari", tutti in attesa di un nemico invisibile.