Stragi di profughi e stupri di cooperanti (anche americane) sotto gli occhi dei caschi blu. Dopo il Rwanda e Srebrenica, le missioni di peacekeeping dell’Onu finiscono ancora sotto accusa. Ne parleranno a Londra i ministri della Difesa di tutto il mondo. Rinviando le riforme

Dopo il Rwanda e Srebrenica, il Sud Sudan. Stragi di profughi e stupri di cooperanti, con i caschi blu che restano a guardare. Quello dell’11 luglio, cinque anni dopo l’indipendenza dal Sudan islamista, è stato un episodio tra tanti. Un centinaio di soldati fanno irruzione al Terrain Hotel. Non un posto qualsiasi ma l’albergo delle ong straniere nel cuore della capitale Juba, ad appena un chilometro da una base dei peacekeeper della missione delle Nazioni Unite “Unmiss”.

Sparano alla testa a un giornalista, di etnia Nuer come il capo ribelle Riek Machar. Poi sequestrano i volontari e le cooperanti, ghignando quando si sentono rispondere “siamo americane”. Le vittime racconteranno che chiamate e sms ai comandi Onu vanno a vuoto per ore. La risposta internazionale? La promessa di altri 4000 caschi blu, chiamati dal Consiglio di sicurezza a coadiuvare 12.500 peacekeeper, molti dei quali dispiegati già prima del referendum per l’autodeterminazione e dell’indipendenza sostenuta dagli Stati Uniti.

Sì, perché il Sud Sudan sarà anche il Paese più giovane al mondo, ma la guerra ce l’ha nel Dna. Questo pezzo d’Africa, savana, Nilo e paludi su un mare di petrolio, è stato ostaggio dei conflitti armati per 42 degli ultimi 60 anni. C’è stata la lotta delle popolazioni nere contro i dominatori arabi del Sudan, ma anche rivalità e violenze intestine tra le comunità del Sud. Nel 2011, l’anno del referendum e del 99 per cento di “sì” all’indipendenza, Washington era finalmente riuscita a sottrarre i pozzi di petrolio ai nemici di Khartoum. Ma si è ritrovata con alleati improbabili, ex guerriglieri che la politica la fanno con i kalashnikov sfruttando la carta etnica. Prendete il presidente Salva Kiir, un Dinka, l’etnia maggioritaria, o il suo rivale Machar: compagni d’arme quando in gioco c’era la secessione, le elezioni le hanno solo rinviate.

L’ultima lotta per il potere è cominciata nel 2013: reparti lealisti e battaglioni ribelli, milizie etniche e guardie presidenziali, tutti contro tutti in un’equazione a somma zero. Le statistiche Onu dicono di 100 mila morti e di due milioni di profughi, 150 mila solo nei campi gestiti da Unmiss. Che si chiamerebbero “centri per la protezione dei civili” ma sono stati violati in tutto il Paese. Chi ha visitato il campo della città di Malakal dopo l’ennesima strage sotto gli occhi dei caschi blu racconta di “lamiere annerite e terra bruciata”. Come ha confermato un’inchiesta interna delle Nazioni Unite, le vittime dei soldati sono state almeno 30. Profughi, donne, bambini: ma per difenderli i peacekeeper hanno chiesto “un’autorizzazione scritta” proprio al governo che avrebbe dovuto impedire il raid.

Che nuovi caschi blu possano fermare le stragi è da vedere. “I funzionari Onu sostengono che per poter garantire le operazioni di pattuglia e nel caso contrapporsi alle unità dell’esercito mancano armi, equipaggiamenti e in particolare elicotteri” dice a l’Espresso Chiara Scanagatta, responsabile per il Sud Sudan di Medici con l’Africa Cuamm, ong padovana in prima fila nel sostegno al sistema sanitario locale: “Qui il tasso di mortalità materna è uno dei più alti al mondo, ma senza pace sarà impossibile costruire un futuro migliore, cominciando dal diritto alla salute”.

Al Palazzo di Vetro sembrano averlo capito fino a un certo punto. “In Sud Sudan ma anche in Congo e in altri Paesi i mandati delle missioni di pace sono vaghi e non indicano nel concreto come applicare il principio della ‘protezione dei civili’” spiega a l’Espresso David Ucko, esperto di peacekeeping presso la National Defence University di Washington. La tesi è che le missioni dell’Onu stanno attraversando una crisi di legittimità dovuta a vari fattori. “C’è un problema di risorse, legato alle divergenze politiche tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ma anche ‘una divisione del lavoro’ alla lunga inaccettabile” sottolinea Ucko: “Le missioni sono finanziate soprattutto dalle grandi potenze, a partire dagli Stati Uniti, mentre a inviare soldati sono perlopiù Paesi poveri”. Numeri alla mano, Bangladesh, Etiopia, India, Pakistan e Rwanda forniscono da soli il 36 per cento dei caschi blu. Se ne discuterà giovedì 8 settembre, a Londra, in occasione di un vertice dei ministri della Difesa degli Stati membri dell’Onu: obiettivo “migliorare il peacekeeping”. Durante l’incontro saranno annunciati impegni in termini di fondi e di truppe, ma difficilmente sarà sciolto il nodo della riforma delle missioni.

Probabile invece si confermi l’attivismo della Cina, primo partner commerciale dell’Africa, interessata ora a un’alleanza strategica con il continente anche sui temi della sicurezza. La prima partecipazione di Pechino a una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite è cominciata lo scorso anno, proprio in Sud Sudan. I caschi blu cinesi sono più di mille. Il loro compito è favorire la stabilità in una regione chiave per il fabbisogno energetico di Pechino. Prima che la guerra riprendesse, il 98 per cento delle entrate del Sud Sudan derivavano dal greggio. Ora i pozzi sono sotto assedio, i tecnici delle compagnie asiatiche sono stati rimpatriati e Machar, il capo ribelle, è segnalato a Khartoum. Una beffa per gli Stati Uniti; e la conferma di una previsione sin troppo azzeccata per la Cina, da tempo in affari con il Sudan e fino all’ultimo contraria alla secessione del Sud (nel nome del dio petrolio).