È il braccio finanziario dell’Unione europea con un portafoglio di miliardi di euro per progetti che portano lavoro, crescita e innovazione. Ma anche operazioni non trasparenti in paradisi fiscali e giurisdizioni sospette, e perfino casi di conflitti di interesse. Come svela il rapporto della ong Counter balance

Il giro di denaro è pari al bilancio di un piccolo stato: 77 miliardi e mezzo di euro finanziati nel 2015. Il braccio finanziario di Bruxelles si chiama Banca europea per gli investimenti (Bei). Infrastrutture, finanziamenti alle imprese e progetti ambiziosi come il porto di Liverpool, i medicinali svedesi per la lotta all’Hiv e il più grande parco solare del continente vicino a Bordeaux. E, in Italia, il piano del governo Renzi per le scuole sicure.

Tutto questo per produrre posti di lavoro, crescita e innovazione. C’è però anche un lato oscuro: investimenti non trasparenti in paradisi fiscali e giurisdizioni sospette, casi di conflitti di interesse e «revolving doors» che coinvolgono gestori dei fondi che hanno precedentemente lavorato per la Bei o altre istituzioni finanziarie internazionali.

Dal 2011 al 2015 sono stati investiti 470 milioni di euro in fondi di investimento situati in giurisdizioni segrete. Solo nel 2015 il 67 per cento del volume delle operazioni è andato a clienti che si trovano in cima alla classifica delle 30 giurisdizioni più oscure dal punto di vista fiscale.

Il paese in cui la maggior parte di tali fondi di investimento sono domiciliati è Mauritius, dove i non residenti vedono tassati localmente solo i redditi prodotti in loco e il reddito delle persone fisiche ha un’aliquota fissa del 15 per cento.

A mettere il dito nella piaga di questo colosso a metà strada tra un’istituzione e una banca è un report della ong con sede a Bruxelles Counter balance.

«La Bei adotta pratiche di prestito poco chiare e poco trasparenti, con dubbio valore aggiunto in termini di sviluppo», sottolinea il direttore di Counter balance Xavier Sol: «Chiediamo di rimettersi in carreggiata e di bloccare tutti i prestiti ai fondi di investimento finchè non saranno affrontati e corretti i problemi strutturali legati a questo tipo di operazioni. La reputazione e il potere politico sono cresciuti e questo implica anche maggiori responsabilità. Ma non solo. Le altre istituzioni europee, tra le quali la Commissione, hanno l’onere a loro volta di dimostrare la loro credibilità in merito alla lotta all’evasione fiscale cominciando proprio dal loro stesso istituto finanziario. È una questione di coerenza».

Un ruolo fondamentale la Bei lo avrà nel cosidetto “Junker plan”, il piano degli investimenti per il sostegno all’economia reale in discussione in queste settimane. E nello stesso tempo una campagna di pressione per ottenere maggiore trasparenza, apertura democratica e tracciabilità dei fondi.

NON C’È SOLO BARROSO

I conflitti di interesse a Bruxelles non toccano solo l’ex presidente della commissione José Manuel Barroso. Per 10 anni alla guida dell’Europa a luglio ha confermato di aver firmato un contratto di consulenza con Goldman Sachs, (di cui diventerà presidente non esecutivo) dopo uno stop obbligatorio di almeno 18 mesi dalla fine della carica. Barroso dovrà accompagnare la banca, che ha contribuito a falsare i conti della Grecia per permettere al paese di entrare nell’euro, nel compito di districarsi nelle difficoltà create dal Brexit.

Anche nell’esercito dei meno popolari 2.900 dipendenti e funzionari della Bei si registrano frequenti casi di conflitto di interesse e «revolving doors», porte che si chiudono come economisti e consulenti e che si riaprono come gestori di fondi di investimento.

È il caso del “Dasos Timberland Fund II” con sede in Lussemburgo, un fondo di private equity focalizzato sulla gestione e certificazione forestale sostenibile. Nel 2013 ha ricevuto 30 milioni di euro dalla Bei. Nato nel 2005, è gestito da Olli Haltia che per cinque anni e fino al 2001 è stato un economista presso la Bei. Come il collega Pedro Ochoa, passato da Bruxelles al Granducato.