Un dossier del giornale accusa Julian Assange di lavorare per la Russia. Ma dai cablo del 2010 l'immagine di Putin esce a pezzi. E per Bill Binney, ex Nsa, è molto più probabile che le informazioni riservate siano uscite da un insider dell'agenzia americana che da hacker al servizio del Cremlino

L'attacco è feroce, ma non inatteso. Il New York Times pubblica un lungo reportage in cui accusa WikiLeaks di essere la buca delle lettere della Russia di Putin. In particolare, l'organizzazione di Assange avrebbe riciclato documenti rubati da cyber criminali russi per colpire le elezioni americane e pubblicato solo materiali che danneggiano gli Stati Uniti e i loro alleati. In realtà sono sette anni che il New York Times pubblica editoriali critici su WikiLeaks. Alcuni osservatori avevano ipotizzato che con l'uscita di scena dell'ex direttore Bill Keller, arcinemico di Julian Assange e della sua creatura, lo scontro si sarebbe attutito. Evidentemente non è andata così.

La guerra risale alla pubblicazione dei 76mila file segreti sul conflitto in Afghanistan, gli Afghan War Logs del luglio 2010, quando la collaborazione tra WikiLeaks e il Times vacillò, per poi andare in pezzi in modo definitivo con la pubblicazione dei cablo della diplomazia americana, nel novembre 2010. Cosa andò storto? A rivelarlo è lo stesso Keller nel suo ebook “Open Secrets”.

L'allora direttore del più potente quotidiano del mondo racconta che nove giorni prima di uscire con quello che la stessa stampa americana ha definito uno dei più grandi scoop degli ultimi 30 anni, il capo della redazione di Washington del New York Times, Dean Baquet, avvertì la Casa Bianca. Subito dopo, Baquet e altri due reporter furono invitati in «una stanza senza finestre al Dipartimento di Stato, dove incontrarono un gruppo di persone che non ridevano affatto: rappresentanti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato, dell'Ufficio del direttore dell'intelligence nazionale, della Cia, della Defense Intelligence Agency, dell'Fbi, del Pentagono, riuniti intorno a un tavolo. Altri, che non si sono mai qualificati, erano presenti all'incontro, appoggiati alle pareti».

L'incontro tra i reporter del New York Times e le alte sfere del governo era off-the-record e quindi Keller non rivela cosa si siano detti. Racconta, però, che nei giorni seguenti gli incontri furono più tranquilli, con la redazione di Washington del New York Times che, «prima di ogni discussione, inviava una serie di cablo che intendevamo usare per la pubblicazione nei giorni successivi».

In altre parole, il più grande e potente giornale del mondo, pubblicò i cablo della diplomazia Usa sotto la supervisione del governo americano. Se Keller lo racconta con franchezza nel suo libro è per un motivo: il direttore sapeva benissimo che la notizia di quegli incontri sarebbe affiorata non appena qualcuno avesse fatto richiesta tramite il Freedom of Information Act (Foia) dei documenti del governo Usa sui retroscena della pubblicazione dei cablo. Negli Stati Uniti, non c'è modo di sottrarre quei file al pubblico accesso: prima o poi, giornali concorrenti, attivisti per la trasparenza, accademici sarebbero ricorsi al Foia per fare luce su quello che era accaduto in occasione della pubblicazione di quei documenti tanto importanti. Certo avrebbe richiesto anni, come tutte le pratiche Foia richiedono, ma il direttore del New York Times era assolutamente consapevole che se avesse nascosto quel retroscena, il danno per la sua reputazione e per quella del suo giornale sarebbe stato notevole. Bill Keller scelse, dunque, un'intelligente tecnica di riduzione del danno.

Il conflitto esploso nel 2010 non si è mai sanato, l'intensità ha avuto fasi decrescenti e riacutizzazioni, come quella a cui stiamo assistendo, ma la ferita appare difficilmente sanabile. Né il rapporto con i giornali concorrenti, come il Washington Post, è andato meglio: nel 2012, il giorno dopo che Assange si rifugiò nell'ambasciata dell'Ecuador per chiedere asilo politico, il Post pubblicò un editoriale che era un vero e proprio avvertimento: in quegli anni, l'Ecuador beneficiava di accordi commerciali con gli Usa che valevano 400.000 posti di lavoro in un paese di 14 milioni di abitanti, «Se Mr. Correa [il presidente dell'Ecuador, ndr] cerca di autocandidarsi a nemico in capo degli Stati Uniti nell'America Latina [dopo Chavez, a quel tempo malato terminale di cancro, ndr] e a protettore di Julian Assange», avvertiva il Post, «non è difficile immaginare come andrà a finire».

Gli editoriali minacciosi e i retroscena poco edificanti hanno portato a un rapporto molto teso tra il team di Assange e i media americani. Rapporto che, però, paradossalmente è anche alla radice del successo di WikiLeaks: più i giornali Usa vengono percepiti dall'opinione pubblica come schierati a difesa degli interessi del governo americano, più le fonti vanno da WikiLeaks con documenti che sanno che non appariranno mai sui grandi quotidiani Usa. E questo è stato vero fin dall'inizio: il celebre video che nell'aprile 2010 fece esplodere la fama di WikiLeaks sull'intero pianeta, il filmato “Collateral Murder”, era già nelle mani del giornalista del Washington Post, David Finkel, come raccontò il noto reporter d'assalto, Michael Hastings: il Washington Post, però, non lo pubblicò. A rivelarlo fu WikiLeaks.

Nell'editoriale di oggi il New York Times afferma che da un'analisi delle pubblicazioni emerge che «vuoi per convinzione, convenienza o coincidenza, i documenti pubblicati da WikiLeaks, insieme con molte delle dichiarazioni di Mr. Assange, hanno spesso beneficiato la Russia, a spese dell'Occidente». E' vero? Chiunque abbia letto i 251.287 cablo della diplomazia Usa sa benissimo che il quadro che ne esce della Russia è terrificante: il paese è di fatto dipinto come uno stato-mafia, dove «la strategia del governo russo è usare la mafia per fare quello che non può fare in modo accettabile come governo».

Subito dopo la pubblicazione di questi documenti il governo russo arrivò ed espellere il corrispondente del Guardian a Mosca, Luke Harding, a dimostrazione che non aveva gradito le notizie sulla Russia. WikiLeas aveva pubblicato assolutamente per intero i file, senza censurare un solo nome o una sola parola. Tutto il materiale è ancora oggi consultabile sul sito. Né i cablo sgraditi alla Russia di Putin sono un'eccezione. Le email interne del regime siriano di Bashar al-Assad (Syria Files) non furono di certo un favore alla Russia e a uno dei suoi alleati: le corrispondenze interne rivelavano come gli apparati della repressione di Assad potevano contare sulla tecnologia italiana del nostro gigante Finmeccanica.
[[ge:espressoarticle:eol2:2185707:1.44751:article:https://espresso.repubblica.it/affari/2012/07/05/news/finmeccanica-aiutava-il-tiranno-1.44751]]
Certo, l'organizzazione di Julian Assange riceve molti documenti che riguardano proprio crimini e misfatti degli Stati Uniti e dell'Occidente, ma WikiLeaks ha delle responsabilità per il fatto che le sue fonti inviano documenti come i cablo della diplomazia Usa, ma non quelli sul regime di Putin? Prendiamo il caso di un'organizzazione giornalistica diversa da quella di Assange, che rivela segreti nel pubblico interesse secondo un modello di pubblicazione completamente diverso: l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij). L'Icij ha rivelato i Panama Papers, facendo scoppiare il più grande scandalo mondiale sui famigerati paradisi fiscali. L'Espresso è il partner italiano dell'Icij per i Panama Papers.

Ebbene, Icij è responsabile del fatto che le sue fonti abbiano inviato file sullo studio Mossak Fonseca, che costruisce società off-shore per i traffici delle aziende nei paradisi fiscali, ma non abbia inviato file su altri studi concorrenti, portando così alla rivelazione di solo alcuni dei loschi traffici, ma non di altri? E' chiaro che l'Icij non lo è: Icij pubblica i documenti che ha in mano e che riesce a verificare.

WikiLeaks ha sempre ribadito che l'unico criterio è la verità dei documenti pubblicati. L'organizzazione non pubblica indiscrezioni, segnalazioni, illazioni che è molto facile manipolare, stiracchiare in un senso o nell'altro: pubblica file originali. Se una fonte invia un documento e WikiLeaks e i suoi media partner riescono a verificarne l'autenticità, quel documento verrà pubblicato, non importa il rischio legale, come la storia del team di Assange può dimostrare.

Infine, un ultimo rilievo sulll'articolo del New York Times di oggi. Riferendosi alle email del Comitato nazionale democratico americano (Dnc), che WikiLeaks ha iniziato a pubblicare in occasione della Convention democratica e che rischiano di affondare la candidata alla presidenza Hillary Clinton, il Times oggi scrive: «i funzionari del governo americano dicono di credere con un grande livello di confidenza che il materiale del partito democratico è stato hackerato dal governo russo e sospettano che anche il software [le cyber weapons che sarebbero state sottratte alla Nsa, come è emerso poche settimane fa, ndr] sia stato rubato dai russi».

Negli ultimi 15 anni il New York Times si è ritrovato spesso a citare fonti del governo americano che facevano filtrare notizie infondate su fatti difficilmente verificabili, come la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam. Il prezzo che ha pagato il giornale sia in termini di credibilità giornalistica sia di responsabilità etica è stato molto alto, basti ricordare scandali come quello di Judith Miller o anche solo l'editoriale di congedo dell'ex direttore Bill Keller che ammetteva l'errore di aver supportato la guerra in Iraq, sulla base delle falsità e delle invenzioni dell'intelligence Usa. Il New York Times di oggi sposa di nuovo la versione “ufficiale” dell'intelligence americana: le email dei democratici sono state hackerate dai russi, così come le cyber armi della Nsa sarebbero state rubate dai cyber criminali del Cremlino. Una versione che però non convince tutti.

L'americano Bill Binney ha lavorato 36 anni alla National Security Agency (Nsa) e ne è stato direttore tecnico, arrivando a comandare seimila uomini, che operavano sotto di lui. Binney è il cervello che, prima di Edward Snowden, ha tentato di opporsi ai programmi di sorveglianza di massa messi in piedi da George W. Bush dopo l'11 settembre. Gli stessi media americani lo definiscono uno dei più grandi crittografi che la Nsa abbia mai avuto. Interpellato da l'Espresso, Binney ha analizzato la fuga delle email dei democratici in una chiave completamente diversa dalla versione del governo americano e rigettando le certezze degli “esperti” che danno per incontrovertibili le prove e le tracce informatiche lasciate dagli hacker russi nel furto.

Per Binney, «nessuno può connettere i russi ai documenti del Comitato Nazionale Democratico» e secondo lui gli indiziati possono essere: o un insider del Comitato, probabilmente simpatizzante di Bernie Sanders, che, rivelano le mail, è stato danneggiato dai democratici che gli avrebbero preferito Hillary Clinton, oppure la Nsa, desiderosa di dare una lezione alla Clinton, perché con la sua gestione irresponsabile delle email del governo americano, ha compromesso le informazioni di più alto livello: i documenti classificati di livello “Gamma”. «L'ultima volta che i documenti di livello Gamma sono stati compromessi», spiega a l'Espresso Binney, «fu nel 1971 con Jack Anderson. Parliamo [della compromissione del programma della Nsa, ndr] Gamma Guppy, che puntava a intercettare i leader sovietici mentre si trovavano nelle loro limousine». Binney spiega a l'Espresso che la Nsa non aveva manco bisogno di hackerare i server del Comitato Democratico per impossessarsi dei documenti poi pubblicati da WikiLeaks: «La Nsa raccoglie tutte le email che passano attraverso la fibra ottica attraverso programmi come Fairview che succhiano direttamente le comunicazioni dalle linee», spiega Binney, «non era necessario hackerare i server del Comitato Democratico».

Anche sulle cyber armi che sarebbero state rubate alla Nsa e che tutti accusano i russi di aver trafugato, Binney è molto scettico che si tratti di un colpo del Cremlino: «Secondo me, è molto più probabile che sia il lavoro di un insider, perché le reti della Nsa sono chiuse, non sono connesse alla rete esterna, e sono anche criptate: questo mi fa propendere per l'ipotesi insider tipo Snowden».

Della possibilità di un “secondo Snowden” si parla da tempo. Documenti delicatissimi come le intercettazioni del telefonino della cancelliera tedesca Angela Merkel non venivano dai file di Snowden. Né, a quanto risulta a l'Espresso, sui file di Snowden sono stati trovati i numeri di telefono di Silvio Berlusconi: e allora da dove venivano le intercettazioni Nsa del nostro ex premier e del suo fidato Valentino Valentini rivelate da l'Espresso e da Repubblica a febbraio?