È giovane, spigliato, alla mano. Apre le porte ai migranti e va ad accogliere i rifugiati in aeroporto. Balla al gay pride, esalta le diversità, vuole legalizzare la marijuana. Ritratto del primo ministro canadese, l’unico di sinistra in ascesa di popolarità mentre tutti gli altri perdono quota

Il magazine americano "Vogue", abituato alle stelle del cinema e della moda, come ha fiutato l’aria lo ha messo in copertina insieme alla moglie Sophie nel primo numero del 2016. E lui, Justin Trudeau, primo ministro liberale da appena due mesi e tutt’altro che ostile a flash e telecamere, non si è fatto pregare. Risultato: boom di vendite e, sul sito della rivista, una delle più alte visualizzazioni di sempre per la versione online dell’articolo.

Basterebbe questo piccolo episodio per dare il senso del (nuovo) "fenomeno Trudeau". Nuovo, sì, perché la "Trudeaumania" in Canada è un termine entrato nel linguaggio comune. Tanto che all’indimenticato Pierre, primo ministro quasi ininterrottamente dal 1968 al 1984, dopo la morte hanno perfino dedicato la montagna più alta del Paese.

Insomma, non sono proprio un cognome e un’eredità leggera, quelle sulle spalle di Justin Trudeau. "Tutto gli è concesso proprio per questo" sostengono i detrattori. Che siano solo gli effetti di una prolungata luna di miele comunicativa, come ritiene qualcuno, il premier canadese è comunque riuscito non solo a varcare i confini nazionali (non poco per un Paese di cui molti faticano perfino a ricordare la capitale) ma anche ad attirare sterminate e crescenti simpatie per il suo modo di fare. E proprio mentre tutti i giovani leader del campo progressista vedono virare verso il basso la loro popolarità, alle prese con la durezza della crisi o più semplicemente della realtà: che siano le promesse non mantenute di Alexis Tsipras in Grecia, le proteste che accompagnano il Jobs act transalpino di Manuel Valls o le calanti fortune elettorali di Matteo Renzi e le loro preoccupanti proiezioni referendarie.

Trudeau è giovane (45 anni da compiere il giorno di Natale, per chi crede alle coincidenze), alla mano, solare. Sorridente, carismatico, ha l’aria da bravo ragazzo. È empatico ma in particolare mediatico. Si è fatto fotografare in posa (come il padre) in equilibrio sulla sua scrivania e riprendere mentre faceva flessioni con gli atleti paralimpici.

Sagace abbastanza, da ex prof di matematica, da spendere due parole sulla fisica quantistica durante una conferenza stampa senza farsi sorprendere da una domanda fuori contesto di un giornalista che voleva prenderlo in castagna. Capace di trasformare anche gli errori in punti di forza, come le scuse rivolte per aver perso la calma e aver colpito involontariamente una deputata durante una concitata seduta parlamentare sull'eutanasia («non sono stato all’altezza di uno standard di comportamento più alto»).

Privo di imbarazzo a sufficienza per ballare con disinvoltura il Bhangra indiano o presentarsi a una fiera del fumetto con la maglietta di Superman, come l’ultimo dei nerd. Uno che va al Gay Pride con l’atteggiamento di chi ci è andato per convinzione e non tanto per il ruolo che ricopre. In tutti i casi, senza mai eccedere nella guasconeria o nelle smargiassate, come finora si è declinato nella politica italiana il ringiovanimento pop. Né aver bisogno di indossare un chiodo di pelle in tv per conquistare, col pubblico del prime time, le simpatie dei giovani e apparire uno di loro.

In pratica una specie di premier della porta accanto. Uno che, se pure non fosse sincero, quanto meno sa sembrarlo davvero. E che, merce rara, pare avere il pregio di non rinunciare alle proprie convinzioni, anche se rischiano di far perdere consenso. Vedi la decisione di partecipare alla ridistribuzione di 25 mila profughi siriani in fuga dalla guerra, punto su cui il suo predecessore conservatore Stephen Harper non ne voleva proprio sapere. I primi, arrivati lo scorso dicembre a bordo di un aereo presidenziale, il primo ministro è andato ad accoglierli all’aeroporto per dare loro il benvenuto: "You’re safe at home now" (Adesso siete al sicuro a casa). Un messaggio buonista, probabilmente, ma significativo per un Paese come il Canada che delle porte aperte ai migranti e del multiculturalismo (introdotto nella forma attuale proprio da Trudeau padre) ha fatto il suo tratto distintivo, malgrado tutti i suoi limiti in tema di identità comune e di reale integrazione fra le varie comunità nazionali. E Trudeau junior non ha fatto eccezione, nominando due sikh al governo (uno è ministro della Difesa).

Aveva detto che se fosse stato eletto si sarebbe sfilato da subito dai bombardamenti americani contro l’Isis e così è stato. Discorso affine per il tema dei diritti civili. Pure se, da credenti, c’è da andare contro Santa Romana Chiesa su temi come l’aborto e l’eutanasia o bisogna compiere piccoli gesti simbolici ma rivoluzionari come issare simbolicamente la bandiera arcobaleno davanti al Parlamento "per combattere l’intolleranza". Oppure grandi gesti concreti, come il disegno di legge per evitare le discriminazioni nei confronti dei transessuali. Anni luce, rispetto a un Paese come l’Italia dove da due anni il ddl sull’omofobia è fermo al Senato perché troppo "divisivo" per i cattolici trasversali e - in nome della libertà di coscienza - nel migliore dei casi un esecutivo fa il possibile per tenersi al riparo da questioni simili.

Insomma, "a real change", in ossequio allo slogan prescelto per la campagna elettorale. Perché come ha detto alla conferenza sul clima di Parigi annunciando l’intenzione di tagliare le emissioni nell’atmosfera (altro punto del programma), "Canada is back": il Canada è tornato. Niente più isolazionismo né cortile di casa degli Stati Uniti. E se vincerà Trump c’è da giurare che ne vedremo delle belle.

Così, proprio mentre nei vicini Usa si contendono la Casa Bianca un tycoon di 71 anni che ironizza sulle sue ancora performanti prestazioni sessuali (ricorda qualcuno?) e una ex first lady di 70 dal sorriso mai davvero spontaneo e convincente, l’anodino Canada conosce una nuova stagione grazie a un 44enne (quasi) qualunque. In grado di suscitare una ventata di ottimismo e speranze come al di là dell’Oceano non si vedeva dai tempi dell’elezione di Barack Obama e del suo volto alla Andy Warhol stampigliato sulle magliette con la scritta "Hope".

Grazie al circuito del web e dei media, certo, che non a caso hanno già fatto di Trudeau una icona. Ma anche perché il Canada mostra un’altra faccia possibile della politica. Alla sinistra ma non solo. Non poco, quando a prevalere sono le paure, il terrore e i risorgenti conflitti razziali.