“L’Espresso” ha creato una piattaforma protetta dove inviare informazioni anche anonime sull’omicidio del ricercatore italiano. Per cercare la verità
Sono trascorsi quasi quattro mesi dal ritrovamento del corpo di
Giulio Regeni senza che le indagini abbiano compiuto un minimo passo in avanti. Niente, buio più assoluto. Tecnicamente si potrebbe parlare di delitto irrisolto. Ma non è così. I casi di omicidio senza colpevoli sono quelli nei quali gli investigatori compiono tutti gli atti possibili per accertare la verità, senza riuscirvi. Non esattamente quello che è avvenuto e sta avvenendo in Egitto. Dove una verità esiste ed è ben nota tanto alle forze di sicurezza quanto ai servizi segreti, quindi allo stesso presidente Al Sisi.
Una verità raccontata più di un mese fa su queste pagine dall’ex colonnello della polizia egiziana Omar Afifi, dal 2008 rifugiato negli Stati Uniti, che ha indicato precise responsabilità nelle torture e nell’uccisione del ricercatore italiano: «Il capo di gabinetto di Al Sisi, Abbas Kamel, che lo ha fatto trasferire per farlo interrogare dai servizi segreti militari. Naturalmente il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar e il presidente Al Sisi erano al corrente già dal trasferimento. Sono anni che nessun cittadino straniero può essere interrogato senza che gli Interni lo sappiano. È il regolamento ed è sempre stato rispettato».
L’arresto, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni sono un
delitto di Stato, uno dei tanti che si compiono quotidianamente nell’Egitto del dittatore Al Sisi. Consegnare i veri responsabili vorrebbe dire ammettere ufficialmente quanto ormai la morte del ricercatore italiano ha reso visibile agli occhi del mondo intero: in Egitto il regime di Al Sisi ha creato uno Stato paragonabile a quello dei desaparecidos nell’Argentina del generale Videla nella seconda metà degli anni Settanta.
Per questo le indagini in questi quattro mesi hanno prodotto solo fantasiosi quanto imbarazzanti tentativi di depistaggio: dall’incidente stradale alla pista criminale; dallo spionaggio alla più crudele delle messe in scena, quando il 24 marzo la polizia egiziana ha giustiziato cinque egiziani per accusarli di essere stati i rapitori e assassini di Giulio, con tanto di inquinamento delle prove facendo ritrovare in casa di uno dei disgraziati il passaporto, la carta di credito e i tesserini di riconoscimento dell’Università di Cambridge e dell’Università Americana del Cairo, effettivamente appartenuti a Regeni.
Un evidente tentativo di depistaggio orchestrato da polizia e servizi segreti. Ma anche in questo caso, una volta che il tentativo è stato smascherato, tutto è stato messo a tacere, senza indagini per cercare di fare luce sui responsabili della grottesca e sanguinosa messa in scena. Una prova ulteriore che al Cairo non c’è giustizia, se non quella che fa comodo al regime.
Menzogne, ricostruzioni false e oltraggiose che l’Italia e il mondo intero non possono accettare. Per tentare di squarciare il velo sull’omertà, sulle bugie, sui depistaggi, sul buio di Stato,
l’Espresso ha creato ELeaks, una piattaforma protetta per raccogliere denunce, documenti, foto, video, testimonianze sul caso Regeni e sui tanti egiziani che quotidianamente subiscono torture, violenze, soprusi da parte del regime di Al Sisi. Una sistematica violazione dei diritti umani denunciata anche dal Parlamento europeo di Strasburgo il 10 marzo 2016. La piattaforma sul nostro sito - in italiano,
arabo e
inglese - utilizza il software Globaleaks ed è in grado di proteggere l’anonimato e la sicurezza delle fonti e di eventuali whistleblower.
Nonostante le pressioni del governo italiano e della comunità internazionale per fare luce sul caso Regeni, l’Egitto non ha ancora fornito una verità accettabile. Eppure le certezze sono tante. Giulio era un ricercatore italiano dell’Università di Cambridge. Nato a Trieste il 15 gennaio 1988, era cresciuto con la famiglia a Fiumicello, in provincia di Udine. In Egitto si era trasferito per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti presso l’Università Americana del Cairo. Non aveva commesso reati, non aveva fatto niente di neanche vagamente censurabile in qualsiasi paese democratico.
Ma nell’Egitto di Al Sisi, non è stato sufficiente. Il 25 gennaio, quinto anniversario delle proteste di
piazza Tahrir, luogo simbolo della Primavera araba del 2011, è stato rapito, torturato da professionisti, come ha dimostrato l’autopsia condotta in Italia, e ucciso con una violenta torsione del collo che ha provocato la frattura di una vertebra cervicale. Il 3 febbraio 2016, il cadavere è stato abbandonato sul ciglio dell’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria, dove è stato ufficialmente ritrovato. Su quel corpo, Paola Deffendi, madre di Giulio, ha visto «tutto il male del mondo»: «L’ho riconosciuto solo dalla punta del naso. Quello che è successo non è un caso isolato, confidiamo in una risposta forte del governo».
Adesso che la morte del ricercatore italiano ha alzato il velo sul regime di Al Sisi, sarebbe perfino riduttivo limitarsi a chiedere la verità per Giulio facendo finta di non vedere i mille Regeni senza nome che ogni giorno vengono torturati ed uccisi in Egitto. «Giulio era uno di noi ed è stato ucciso come veniamo uccisi noi», ha scritto il writer egiziano El Teneen su uno dei tanti graffiti dedicati a Regeni. «Voglio dare un contributo affinché si continui a parlare di questa morte barbara, perché non venga dimenticata. La mia speranza è che quando il caso di Giulio sarà risolto e i suoi assassini saranno portati davanti alla giustizia, non sarà solo un conforto per la famiglia. Se mai accadrà, questo ci darà la speranza che un giorno potremmo vedere la fine degli orrori a cui i giovani egiziani sono sottoposti quotidianamente».
La vita di Giulio Regeni è scomparsa nella notte del Cairo, come accade da anni a tanti anonimi egiziani. I diritti umani non sono negoziabili, e devono restare la colonna portante anche nei confronti di un Paese con il quale l’Italia e l’Europa condividono rapporti economici e politici di evidente rilevanza strategica nello scacchiere mediorientale. Khaled Diab, giornalista e scrittore egiziano che vive a Gerusalemme, ha scritto sul “Corriere della Sera”: «La morte di Regeni ha scoperchiato il marciume che esiste all’interno del regime egiziano, e questo dovrebbe temperare gli entusiasmi di tanti politici e giornalisti italiani nei confronti di Al Sisi, descritto come “coraggioso” perché alla testa di una “rivoluzione” all’interno dell’Islam». Una posizione condivisa da Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, che sull’Huffington Post ha chiesto all’Italia di dichiarare l’Egitto Paese non sicuro: «Non lo è stato per Giulio e non lo è per migliaia di egiziani di tutte le età e di tutte le classi sociali, della cui sorte mai sapremo».
ELeaks, la piattaforma protetta de “l’Espresso”, è stata creata nella speranza di contribuire a fare luce sulla morte di Giulio, ma anche sul baratro di orrore e violenza in cui è caduto il Paese. Oggi non appare più possibile chiedere giustizia per il ricercatore italiano senza guardare ai mille Regeni senza nome di cui non si parla. Seguendo le istruzioni sul sito - in italiano, arabo e inglese - le fonti avranno la sicurezza dell’anonimato. Neanche noi sapremo mai chi sono i whistleblower se non saranno loro a voler rivelare la propria identità. Ovviamente, documenti e segnalazioni saranno sottoposti a verifiche e controlli: solo le informazioni verificate dalla redazione e sorrette da riscontri oggettivi verranno pubblicate da “l’Espresso”.
La collaborazione tra whistleblower e giornalismo d’inchiesta ha già dimostrato di essere la forma che più si avvicina a quel ruolo di “avvocato, tutore, difensore” del discorso sociale, che il filosofo tedesco Jürgen Habermas assegna ai giornalisti. Il controllo dell’esercizio del potere e lo svelamento dei segreti di Stato si sono dimostrati funzioni essenziali per dare alla democrazia l’informazione di cui ha bisogno. L’uomo che ha rivelato i piani di sorveglianza di massa della National Security Agency americana, Edward Snowden, ha detto: «La conoscenza pubblica della verità è più importante dei rischi che la sua rivelazione comporta per pochi».
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