La settimana prossima sarà decisiva per vedere se le altisonanti parole dei capi di stato intervenuti al summit si potranno tradurre in un accordo vero. Dove sarà decisivo l'impegno economico dei paesi industrializzati per aiutare quelli in via di sviluppo a saltare la fase di crescita economica a base di idrocarburi

Le nobili, altisonanti parole pronunciate dai presidenti, dai primi ministri e perfino dai re di 150 Paesi, sono echeggiate nei giorni scorsi su tutte le prime pagine del giornali del mondo. Cotante promesse a difesa del bene inestimabile che accumuna tutti i popoli – l’atmosfera – hanno offerto la netta sensazione che le Nazioni Unite siano davvero prossime a una monumentale riorganizzazione energetica: abbandonare il prima possibile i combustibili fossili, che producono l’anidride carbonica che riscalda il pianeta.

Appena i leader sono volati via da Parigi però, il negoziato è tornato agli estenuanti ritmi di sempre. «La questione dei finanziamenti ai paesi più poveri per aiutarli nell’adozione di fonti di energia pulita è determinante: è un “prendere o lasciare”», sentenzia Nozipho Mxakato-Diseko, la diplomatica sudafricana che guida il gruppo negoziale “G77 +Cina” (che in realtà riunisce 134 paesi in via di sviluppo).

«C’è il timore – gli fa eco Cyprian Awudu del Camerun – che stiamo andando verso un’altra Copenhagen».
Il riferimento è all’indentico consesso di sei anni fa nella capitale danese, quando l’accordo sembrava a portata di mano e invece tutto finì in un fragoroso fallimento. È un’idea che ai negoziatori riuniti a Parigi fa letteralmente venire i brividi.

Entro il weekend sarà formalizzato il nuovo testo di accordo che servirà come base di lavoro per la prossima, decisiva settimana, quando tutti i ministri dell’ambiente del mondo saranno qui. Si tratta di un testo ancora costellato da un firmamento di parentesi quadre, con tutte le variabili su cosa si [deve] [dovrebbe] [potrebbe] fare per raggiungere questo o quell’obiettivo. 

Ma non si possono comprendere i dolori del diplomatico del clima, senza sapere che questo negoziato va avanti dal 1997, da quando il Protocollo di Kyoto venne approvato con la premessa che si trattava solo di un primo passo. O, a essere generosi, dal 2005, quando lo stesso Protocollo è entrato in vigore. Soltanto nel corso di quest’anno è impossibile contare quante riunioni sono state condotte, in ogni angolo del mondo. Eppure, a una settimana dal gong finale, l’incontro di pugilato multilaterale sembra ancora incredibilmente aperto.

Kyoto aveva separato il mondo in due: i paesi ricchi da una parte, i poveri dell’altra. Il motivo stava in un principio già parte integrante del diritto internazionale: le «comuni ma differenziate responsabilità». In altre parole, siccome la CO2 immessa nell’atmosfera ha un impatto per un secolo e oltre, chi ha cominciato prima a inquinare ha maggiori responsabilità rispetto a chi ha cominciato dopo.

Tanto per dare un’idea, secondo i calcoli presentati qui a Parigi dal celebre climatologo James Hansen, l’anno scorso la Cina ha emesso circa il 25% della CO2 e gli Stati Uniti il 15%.  Ma, se si calcolano i contributi del passato (dal 1750 a oggi), la Cina è responsabile del 10% e gli Stati Uniti del 26% dell’anidride carbonica antropogenica (ovvero prodotta dal genere umano) nell’atmosfera.

La novità è che la Repubblica Popolare Cinese accetta di entrare nei ranghi dei grandi del mondo ed è pronta a fare la sua parte, a colpi di efficienza energetica e fonti rinnovabili. Molto meno l’India che, con 400 milioni di abitanti ancora senza elettricità, accetta solo impegni che non compromettano l’uscita dei suoi poveri dalla povertà. Il fatto sgradevole però, è che anche stavolta  le frizioni diplomatiche sono fra il lato ricco e quello povero del mondo.

 Parigi non finirà come Copenhagen. O almeno, è quanto dicono i due delegati europei e il sudamericano che abbiamo intervistato. «È solo il normale gioco delle trattative», assicura Francesco La Camera, capo della delegazione italiana.

«Dopo questa prima settimana di colloqui, qualcuno di voi potrebbe sentirti scoraggiato», ha detto l’ex vicepresidente americano Al Gore a una folla di giovani ambientalisti adoranti. «La mia aspettativa però, è che alla fine otterremo un risultato significativo. Il mondo sta cambiando e non potrebbe essere altrimenti». Nella settimana che resta tuttavia, non c’è solo da decidere il come, ma anche il quanto: i miliardi di dollari che il lato industrializzato del mondo dovrà versare negli anni a venire per aiutare l’altro lato a saltare la fase di crescita economica a base di idrocarburi, ma anche per riparare i danni che i cambiamenti climatici avranno prodotto nel frattempo. Un compito molto, molto più prosaico di quelle nobili parole presidenziali, pronunciate al vento.