Il comando americano ha mobilitato 50 pool di professori per decifrare l'anima dello Stato Islamico e capire perché raccolga tanto consenso. Queste le conclusioni degli studi che svelano le radici della sua forza. E che sono state ignorate dall'Occidente
Nel fiume di chiacchiere scatenate dal massacro di Parigi c'è uno studio potente che permette di chiarire le idee sulla vera natura dello
Stato Islamico. È una ricerca commissionata dalle forze speciali americane, quelle che sul campo devono combattere l'esercito del Daesh. E che un anno fa si sono rese conto di non conoscere il nemico. L'introduzione è stata scritta dal generale
Michael Nagata, il comandante delle truppe statunitensi che fronteggiano l'Is.
«Come veterano delle operazioni antiterrorismo, la debolezza nella nostra comprensione del problema è fonte di preoccupazione costante. Perché non riusciamo a
capirli? Non ne abbiamo le capacità? Non riusciamo a coordinare le nostre risorse? Manchiamo di immaginazione, come hanno sottolineato i risultati della Commissione d'inchiesta sull'11 settembre? Io credo che non stiamo comprendendo completamente quelli che dobbiamo contrastare. E nel caso dello Stato Islamico abbiamo davanti un nemico radicale e violento che è diverso da tutti quelli che abbiamo affrontato prima. Nonostante la forza che Al Qaeda è stata in grado di dimostrare, nelle sue varie forme dal Pakistan al Nord Africa, il Daesh è la più efficace, più seduttiva, più potente forma di estremismo armato che abbiamo mai visto».
Il generale non ha bisogno di informazioni sulle truppe di Al-Baghdadi, sulle loro
armi o i loro metodi di combattere: a quello provvedono i suoi soldati. Vuole qualcosa che i militari faticano a decifrare: chiede di penetrare nell'
anima del Califfato, il segreto profondo della sua energia distruttiva. E dichiara: «Tra tutti i suoi punti di forza, quello che richiede attenzioni crescenti è il suo potere invisibile: la sua abilità nel persuadere, nell'ispirare, nell'attrarre uomini e donne da tutto il mondo, la sua capacità nel creare un'immagine di inarrestabile potenza e passione spirituale. Mentre stiamo definendo le risorse materiali, finanziarie e le altre forme di potere concreto per combattere efficacemente l'Is, siamo invece significativamente deboli e vulnerabili nel fronteggiare questo potere invisibile».
LA MOBILITAZIONE DEI PROFESSORIPer rispondere a questa domanda il comando Usa mobilita
un'armata di professori universitari americani, europei e arabi e di analisti di tutti i corpi militari: oltre cinquanta esperti con alle spalle brigate di ricercatori. Nell'elenco ci sono i migliori accademici del settore, impegnati negli istituti specializzati degli atenei più prestigiosi, da Harvard a Oxford.
A questo battaglione di cervelli il generale Nagata chiede di decifrare la «natura psicologica, ideologica, narrativa, emozionale, culturale e i modelli di ispirazione dello Stato islamico». Con un quesito preciso: «Cosa rende l'Is così magnetico, seduttivo e profondamente radicato in una determinata, ma larga, parte della popolazione islamica e gli permette di richiamare combattenti stranieri, denaro, armi, sostegno, popolarità e infine sostegno da altri gruppi terroristici come Boko Haram e molte altre formazioni nord africane e arabo sunnite?».
La grande ricerca è stata lanciata nel
giugno 2014, pochi giorni prima della proclamazione del Califfato dal pulpito della moschea di Mosul. I risultati sono stati sintetizzati nel dicembre 2014 in un monumentale dossier di 214 pagine, che è stato volontariamente reso pubblico dal Pentagono. In questo rapporto di 214 pagine ogni gruppo di esperti offre la sua analisi su un aspetto specifico, fino a completare la radiografia della nuova minaccia mondiale. È un documento profetico, perché anticipa gli schemi dell'evoluzione che ha portato la falange jihadista ad attaccare la Francia e gettare nel terrore il Belgio. Ed è anche la testimonianza dell'incapacità occidentale nell'affrontare i problemi: un anno dopo questa ricerca, il Califfato non è stato sconfitto ma appare addirittura più forte.
LA TEMPESTA PERFETTATutti gli studiosi interpellati ritengono che tra Siria e Iraq si siano verificate le condizioni per la nascita di una «tempesta perfetta». In quelle terre desolate anni di conflitti e dittature hanno creato l'habitat ideale per lo sviluppo del male. Tra gli elementi decisivi elencano il vuoto di potere, il rapido cambiamento del mondo arabo, la crescita “dell'età dell'informazione” con l'accesso ovunque alle notizie grazie a Internet, la guerra civile e la crisi economica che hanno impoverito questi paesi e alcune delle nazioni confinanti, la crescita demografica che aumenta il numero di giovani senza prospettive.
Questo è l'humus che ha fatto prosperare rapidamente i semi dell'odio. Ma non basta a spiegare la forza del Daesh. Ci sono altri fattori decisivi, con un equilibrio tra terrore e seduzione: «La capacità di controllo della popolazione avviene con la paura e la coercizione, la garanzia di ordine e amministrazione, l'assenza di alternative, la forza della leadership e la capacità di raggiungere successi che generano altri successi».
È un potere bifronte. Si fonda sull'interazione con le popolazioni locali dei territori occupati – a cui comunque ha assicurato una forma di stabilità e sicurezza dopo anni di guerra – ma anche con il sostegno della popolazione sunnita, conquistato attraverso l'uso «di narrazioni persuasive». Narrazioni che «veicolano un senso di imperativo morale, enfatizzano le rivendicazioni sunnite, danno un'identità e offrono un'occasione per l'avventura e l'eroismo».
LE TRE RISORSELe risorse strategiche che permettono al Califfo di dominare il suo territorio tra Siria e Iraq, ad esempio, sono state analizzate da un pool dell'università del Nebraska. La prima sono «metodi e strutture di comando unificate, senza rivalità settarie o etniche che creino fratture interne». Nel mondo arabo pochi governi possono vantare una simile
compattezza e sono quasi tutti di natura dispotica, come l'Egitto dei generali, le monarchie saudite e gli emirati del Golfo. Alcune nazioni sono nel caos, come Libia e Yemen; altre sull'orlo della catastrofe, ad esempio Libano e Tunisia.
La seconda chiave fondamentale è l'impiego avanzato dell'
informatica, sia dal punto di vista tecnologico per gestire le comunicazioni sia per la capacità di diffondere ovunque il messaggio integralista. Infine il Daesh può contare su una «legittimazione organizzativa riconosciuta in una regione instabile»: amministra il territorio, fornendo servizi pubblici e garantendo l'ordine. Ed ecco la diagnosi: «Questi elementi che portano a prevedere l'evoluzione dell'Is verso un vero governo effettivo delle zone sotto il suo controllo militare». Non si tratta di un fenomeno effimero, perché tra Siria e Iraq si sta realmente generando un nuovo stato.
Ed è proprio la ricerca – condotta dalla professoressa Shalimi Venturelli dell'American University di Washington – sulle dinamiche dello Stato Islamico che avrebbe dovuto lanciare un campanello d'allarme, ben prima delle stragi in Tunisia e del massacro di Parigi. Un anno fa era già chiaro che l'Is puntava «ad allargare il campo di battaglia in altre regioni».
Tutti i dati, raccolti sul campo o provenienti dalla sua rete mediatica, convergevano nell'indicare una proiezione dell'offensiva in altri paesi. Il Califfato sa «integrare gli aspetti materiali e morali del combattimento»: addestrare e armare i suoi soldati, ma soprattutto motivarli e convincerli della possibilità di vincere. Inoltre ha le doti per imporsi in una guerra moderna: riesce a dominare l'ambiente informativo «con profondità strategica superiore a tutti gli avversari» ma sviluppa pure «una robustezza nel resistere agli attacchi e rafforzare il controllo della popolazione». Insomma, ha i requisiti per proseguire l'avanzata senza limiti, sbaragliando ogni nemico.
IL "BRAND" VINCENTEIl credo che riesce a galvanizzare le sue legioni si basa su pochi punti base, messi in luce da uno staff misto di docenti di tre atenei americani assieme ad analisti dell'Us Air Force. «Si sentono destinati alla vittoria, garantita dalla volontà divina. Sanno che l'otterranno solo con la violenza. Riconoscenze e onori aumenteranno sempre per chi combatte (specialmente nell'aldilà). I loro nemici sono i sunniti che non seguono più il Corano, gli sciiti, gli americani, gli occidentali, gli ebrei e chiunque si opponga alla loro legge».
È un messaggio di facile presa tra i giovani sunniti iracheni, demoralizzati e senza chance di un futuro migliore, ma che seduce un crescente numero di militanti jihadisti di altre formazioni e di altri paesi. «L'Is è riuscita a monopolizzare questi argomenti nel mondo islamico sunnita per imporre una superiorità morale su tutte le voci moderate».
Non solo: «I punti di forza della loro narrativa permettono una prospettiva a lungo termine nell'arruolamento di volontari». C'è però una possibilità di incrinarne la potenza, sfruttando una crepa che potrebbe allargarsi nel tempo: «Allo stesso tempo il rifiuto del loro richiamo da parte di una vasta maggioranza di musulmani e la necessità di continuare a ottenere vittorie, assieme alla discrepanza tra la loro retorica violenta e i principi della loro fede indicano che l'Is come organizzazione non potrà essere gestita all'infinito, soprattutto se contrastata in modo efficace». Già, ma un anno di raid aerei della coalizione a guida americana non ha scalfito il dominio del Daesh. Gli unici a batterli sul terreno sono stati i peshmerga curdi iracheni e siriani, che li hanno scacciati dalle città di Kobane e di Sinjar. Risultati di grande valore simbolico ma scarso peso strategico.
Sconfitte che non hanno neppure inciso sulla promozione internazionale del Califfato. Il suo marketing infatti segue uno schema molto incisivo. È un
brand – come scrive Laura Steckman, analista della società di consulenza Wbb – costruito sulla storia araba medievale e su un'interpretazione restrittiva del Corano: invita a “comprare” la sua visione dello Stato islamico. Uno strumento è il giornale online
Dabiq che «offre l'idea di un governo nato per sostenere i sunniti soggiogando tutti gli altri popoli».
Un'immagine che non colpisce l'opinione pubblica occidentale ma è di grande effetto sul target designato. «Foto e articoli descrivono i benefici che l'Is promette e trasmettono un messaggio ai musulmani sunniti: ci prendiamo cura dei nostri “cittadini” e risolviamo le necessità di benessere della popolazione islamica. Questi sono solo alcuni dei metodi con cui stanno lavorando per creare il brand di una nazione». L'Europa si è accorta di Dabiq solo adesso,
rileggendo l'intervista dello scorso febbraio in cui la “mente” della carneficina di Parigi, Abdelhamid Abaaoud, presentava i suoi piani e si vantava di avere beffato la polizia belga «grazie all'aiuto di Allah». Un altro manifesto che diffonde ai jihadisti la fiducia nella vittoria finale, un altro segnale ignorato dall'intelligence occidentale.
IL FASCINO DEL JIHADIl profilo psicologico comparativo tra le due figure chiave della galassia jihadista – l'autoproclamato califfo al-Baghadi e l'ultimo leader qaedista al-Zawahiri – è stato curato dal maggiore Jason Spitaletta, un ufficiale dei marines che collabora con la John Hopkins University. «Sicuramente il primo viene percepito come più carismatico ma lo Stato islamico non vive del culto della personalità e per questo le sue strutture sono meno vulnerabili»: non basta eliminare il capo per metterle in crisi. I rapporti tra i due sono conflittuali, anche a livello dottrinario. L'esame dei discorsi di al-Baghdadi indica che è rispettoso di al-Zawahiri, senza porsi in una posizione di inferiorità. E che si considera soprattutto un successore di Abu Musab al-Zarqawi, l'emiro qaedista dell'Iraq ucciso nel 2006 e ritenuto il fondatore del Daesh. Sono i contenuti dei proclami e non il fascino del condottiero a moltiplicare i rischi di radicalizzazione: «l'Is si rivolge ad adolescenti, giovani e uomini di mezza età, comprendendo i desideri delle fasce di popolazione che vuole portare dalla sua parte».
Arruolarsi è facile. E questa è un'altra particolarità rispetto alla selezione severa di gruppi come al Qaeda. Un team di docenti statunitensi e arabi della John Hopkins evidenzia le caratteristiche che hanno fatto prosperare il reclutamento: «Ci sono pochi ostacoli per l'ingresso nei ranghi, vengono accettati volontari con le esperienze più diverse. E il successo dell'Is ha determinato un effetto “palla di neve”, una valanga che spinge molti a correre nelle sue fila solo sulla spinta delle vittorie raggiunte». Non viene trascurato il «sofisticato apparato di propaganda» incentrato su poche parole chiave: «la vittimizzazione e le pessime condizioni dei sunniti in Iraq, l'odio verso gli sciiti, l'offerta di un'alternativa sia al caos che agli stati arabi tradizionali». Argomenti che – stando a un sondaggio condotto tra i musulmani residenti negli Usa dal centro ricerche dell'Homeland Security – hanno poca presa all'estero, dove è più sentita la necessità di combattere la dittatura siriana di Bashir Assad che non l'arruolamento nel Califfato. Quello che spingerebbe i foreigner fighters a combattere è soprattutto una motivazione psicologica personale, mentre le rivalità settarie mobilitano i giovani iracheni e dei paesi confinanti.
IL RANCORE IN RETELo conferma pure il lavoro della professoressa Jocelyne Cesari, che si occupa di questi temi a Harvard e Berkley, evidenziando come i guerrieri adescati in Europa o nelle Americhe «siano spinti dalla carenza di integrazione dei musulmani: il mancato riconoscimento dell'Islam come una legittima componente delle democrazie occidentali li rende più vulnerabili alle lusinghe dell'Is». Ma l'adesione al Califfato nei paesi arabi e nel resto del mondo musulmano fa comunque riferimento ai valori del salafismo che sostengono l'unità dei credenti rispetto a specifiche lealtà nazionali, culturali o etniche: l'Islam viene prima dei governi, ogni istituzione non plasmata sul Corano va distrutta. Senza questa base fondamentalista che ormai è diventata un «fenomeno globale» anche sul web, la propaganda jihadista non riuscirebbe ad attecchire.
E non bisogna pensare che il messaggio violento raggiunga una platea sterminata. Un dipartimento dell'università del Texas ha scrutato la sfera di Twitter in lingua araba per concludere che «il sostegno all'Is è limitato, ma lo è anche quello per le politiche e gli interventi occidentali nell'area». Anche in questo campo però le bandiere nere sono più abili dei comunicatori americani ed europei: «Nonostante siano isolati dal mainstream su Twitter, sanno però sfruttare gli eventi a loro vantaggio. E propongono una visione unitaria sui social media: crudele verso i nemici e generosa verso i fedeli». Insomma, sono pochi ma riescono ad sbaragliare i rivali persino su Internet.
Tanto che Anne Speckhard della Georgetown University ritiene che abbiano ormai creato un
meme, un modello che si propaga automaticamente per imitazione sulla Rete. Lo hanno fatto «rigenerando e riassemblando un'ideologia terroristica già esistente in un potente meme sociale che adesso è virale, diffondendo il contagio in tutto il mondo». Per disinnescarlo – sostiene Steve Cormau dell'Arizona University – bisogna «deromanticizzare» la narrativa del Califfato, demolendo l'immagine di una comunità ideale, insistendo sui dettagli che mostrino gli aspetti negativi e evidenziano le ambiguità tra la loro violenza, i loro compromessi e la realtà nobile dei valori musulmani. Un'operazione da commandos culturali, per minare i loro messaggi e ribaltarne la forza. Che però nessuno ha ancora cercato di avviare.
C'è un problema, tra i tanti, che non è stato superato. E lo mettono in luce due funzionari dell'Fbi: le forze armate non condividono le informazioni raccolte in Siria e in Iraq con le polizie che intervengono in patria. Certo, le due organizzazioni hanno regole e obiettivi diversi, ma
senza uno scambio di dati non c'è la possibilità di contrastare il reclutamento nei paesi occidentali né di varare strategie efficaci contro il proliferare dell'ideologia jihadista. Anche su questo punto, un anno dopo, non si è mosso nulla. Né negli Usa, dove i generali hanno persino gonfiato i risultati ottenuti in Iraq per fare bella figura con la Casa Bianca. Né in Europa, dove non si riesce nemmeno a far funzionare la collaborazione tra le polizie confinanti di Francia e Belgio.
LA MACCHINA DA GUERRAA spiegare i processi che trasformano le reclute in macchine da guerra provvede un pool di ricercatori di Oxford. Il meccanismo è quello tipico di tutti gli eserciti: «Diventano una banda di fratelli, il cameratismo in gruppi simili a famiglie è decisivo per il loro spirito combattivo».
Una «Band of brother», che nell'omonima serie tv prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks viene presentata citando l'Enrico V di Shakespeare: «Da oggi, fino alla fine del mondo, noi che siamo qui verremo ricordati. Noi pochi fortunati, noi banda di fratelli. Perché colui che oggi è con me e versa il suo sangue sul campo, colui è mio fratello».
L'Is non fa nulla di diverso. Con una «fusione di identità che fornisce un senso di invincibilità e di un destino speciale che spinge il gruppo e ne motiva la volontà ad affrontare sacrifici costosi, incluso il combattere e morire».
Anche in questo caso, però, il Califfato va oltre. Perché la «causa sacra» ha l'effetto di cementare questi gruppi in schiere sempre più larghe: «La dedizione incondizionata verso i camerati e la devozione a una causa sacra, per quanto perversa possa apparire, può essere ciò che permette a formazioni rivoluzionarie di resistere e spesso prevalere contro nemici più armati che sono però motivati dalle tipiche strutture di compenso come le paghe e le promozioni». Quello che è accaduto nello scontro tra lo Stato Islamico e l'esercito nazionale iracheno, che è fuggito da Mosul senza nemmeno provare a usare l'arsenale colossale di tank e cannoni fornito dagli Usa.
I TENTACOLI SUL MONDO ARABOE non bisogna pensare all'Is come a un'organizzazione ermetica. Pure in questo è molto differente dagli altri gruppi terroristici: lancia tentacoli in ogni direzione, con grande pragmatismo, tessendo una ragnatela in tutto il Medio Oriente.
Philip Potter dell'università della Virginia ha ricostruito «il network di relazioni che hanno contribuito in molti modi significativi alle sue capacità. In particolare, questi rapporti gli hanno portato gli uomini e le armi senza le quali non avrebbe potuto crescere».
È una rete fluida, con canali che si chiudono e altri che si aprono. In estrema sintesi, ci sono state tre fasi, che ne hanno segnato l'evoluzione da movimento di guerriglieri a entità statale: una competizione con scontri con le altre fazioni jihadiste e con le realtà tribali nel 2012-13; la supremazia conquistata dell'Is nel 2013-14; la riconciliazione di molti dei rivali sotto la sua bandiera dal 2014 in poi. «Oggi la pressione dall'esterno mette a rischio la cooperazione tra l'Is e questi alleati», ma allo stesso tempo l'assenza di minacce sul fronte interno dello jihadismo spinge sempre più gruppi ad allinearsi al Califfato con «una crescente consistenza e coerenza degli schieramenti tra i fondamentalisti da una parte e i movimenti moderati o laici dall'altra». Al-Baghdadi sta polarizzando il conflitto, raccogliendo al suo fianco tutti gli estremisti e spingendo ogni antagonista fuori dalla partita.
La natura delle relazioni intrecciate dal Daesh è stata approfondita da altri due ufficiali dell'accademia dei marines, i maggiori Craig Giorgis e Dan Myers. In particolare si sono concentrati su quel sistema di rapporti con contrabbandieri, mercanti e sette religiose che in una fase di caos in Siria e in Iraq ha permesso di forgiare due tipi di legami. Ci sono quelli che attivamente li sostengono per convinzione. E quelli che si alleano temporaneamente per convenienza.
L'
elevato livello di violenza è fondamentale per mantenere in piedi questa rete. E «l'elemento chiave è la leadership che ha saputo integrare i successi tattici con i risultati strategici. In altre parole, l'Is comprende la natura della guerra, ha una visione e la perfeziona più velocemente di quanto i suoi avversari riescano a rispondere». In questa maniera riesce a garantirsi collaboratori in ogni settore, anche tra quei trafficanti in cerca di profitto che comprano il petrolio estratto nei suoi territori, vendono armi o sfruttano i porti franchi di Raqqa per il contrabbando. Sanno terrorizzare i dissidenti, stroncando ogni opposizione. E con soldi e fede il Daesh si infiltra nelle caserme dei nemici, che siano l'esercito di Damasco o quello di Baghdad.
I DUE ALLEATI DECISIVIL'intelligence dell'esercito americano si è dedicata ai legami di convenienza intessuti con i due principali alleati: le tribù sunnite irachene e i reduci baathisti del regime di
Saddam Hussein. Senza di loro il Daesh non potrebbe gestire il territorio né far funzionare l'apparato bellico. Entrambi sono ideologicamente lontani dall'Is. Le tribù sono in maggioranza moderate, i baathisti hanno addirittura una radice socialista ma li unisce la volontà di combattere il governo di Baghdad, ritenuto espressione della maggioranza sciita dell'Iraq e causa della loro persecuzione.
Sono due dei capisaldi più a lungo
sottovalutati dagli Stati Uniti. Sin dalla caduta di Saddam, i generali americani hanno deriso l'efficienza delle strutture create dal suo regime, escludendole dalla gestione del paese e spingendole nelle braccia degli jihadisti. Quanto all'importanza delle famiglie tribali, radicate da secoli nel territorio, l'atteggiamento è stato discontinuo: prima gli statunitensi le hanno ignorate, poi ne hanno fatto il fulcro della lotta contro al-Qaeda, quindi le hanno abbandonate alla vendetta integralista. E oggi è estremamente difficile guadagnare ancora la loro fiducia. Mentre il Daesh ha saputo compensare con incarichi e finanziamenti i leader delle tribù e gli ufficiali baathisti, integrandoli nell'amministrazione del nuovo stato.
Che fare? Nel dossier gli analisti dell'Us Army sembrano escludere la possibilità di azioni dirette dell'Occidente per rompere queste alleanze. La partita è tutta irachena. E spiegano che per spezzare il patto ci vuole un insieme di azioni positive delle autorità irachene e di errori del Califfato. Al momento però nulla è cambiato.
Le pressioni di Washington hanno portato un anno fa alla rimozione del premier iracheno Al-Maliki, uno sciita che ha emarginato con violenza i sunniti, ma il suo successore non ha ancora fatto nulla per recuperare il terreno perduto. Quanto al resto del Medio Oriente, pure gli studiosi in uniforme ritengono che la maggioranza della popolazione non sia dalla parte dello Stato islamico anche se ci sono in molti paesi simpatie verso l'Is.
«Il risultato è un contesto favorevole al reclutamento incontrastato e al sostegno delle bandiere nere. Per questo i governi della regione (e quello americano) devono rendersi conto che le iniziative contro l'Is possono potenzialmente determinare tensioni interne con parte della popolazione». Un avvertimento chiaro, che viene dallo stesso Pentagono: ogni azione militare straniera può causare più danni che benefici, perché può persino allargare la penetrazione delle bandiere nere nelle altre nazioni arabe.
COME FERMARLIQuattro docenti, tra cui un arabo e un tedesco, dell'università della South California hanno intervistato 59 esperti internazionali e setacciato la documentazione originale dell'Is per definire gli obiettivi dello Stato islamico. La sintesi è in quattro punti semplici, in apparenza banali. Il progetto è quello di istituire un califfato in Iraq e in tutto l'Oriente. Quindi controllare e governare questa entità. Ed estendere la legge islamica in ogni continente. Per restaurare infine il potere e la gloria dell'islam sunnita. Quello delle armate del Profeta, che da Medina in poco più di un secolo arrivarono alle porte di Parigi. O quello dei califfi di Baghdad che sconfissero crociati e bizantini. Un progetto che non conosce confini.
I margini di manovra per contrastarlo sono limitati. Lo studio non prende in considerazione le opzioni militari, ma solo la sfida contro “il potere invisibile” che anima il Califfato. Le conclusioni del dossier sono spietate. La strada ipotizzata punta a fare leva sulle altre nazioni arabe sunnite – Egitto, Giordania, Arabia Saudita, paesi del Golfo – che però al momento non paiono disposte a impegnarsi attivamente.
«I governi arabi dei paesi sunniti vedono l'Is come una forza settaria che contrasta l'influenza degli sciiti e degli iraniani. Finché il Califfato non sarà sentito come una minaccia alla loro stabilità interna, avranno pochi incentivi a opporsi allo Stato islamico». Mobilitare gli arabi è una missione impossibile? Non è detto. «Ci sono segmenti della popolazione attivi e influenti nei paesi arabi sunniti contrari ai piani dell'Is che – in base alla retorica del Califfato – alla fine punta a rovesciare i governi delle nazioni dove vivono. I leader dello Stato islamico hanno steso un confine sottile tra il mostrarsi minacciosi verso la sicurezza interna di questi paesi e dall'altro lato conservare la simpatia delle popolazioni e dei finanziatori che risiedono in queste nazioni». La strada è quella di stimolare la consapevolezza del pericolo nelle capitali arabe e cominciare a cambiare quantomeno la percezione della minaccia costituita dall'avanzata delle bandiere nere. Al momento, soltanto i governi di Egitto, Giordania e Libano – quelli che si sentono in prima linea – stanno realmente lottando contro l'Is. Gli altri fanno il minimo, giusto per non irritare le potenze occidentali.
MINARE IL CONSENSOC'è un altro fronte su cui agire: minare l'appoggio dei leader tribali sunniti nelle zone dominate dal Califfato. Non è facile. «La psicologia dell'intimidazione, l'aura di vittoria e un calcolo politico pragmatico rafforzano il consenso delle élite irachene e la capacità dell'Is di controllare la popolazione e il territorio». È vero che «la complicità e il sostegno dei vertici tribali sembrano essere basati su fattori materiali piuttosto che sull'adesione della loro gente al messaggio del Califfato, adesione che si sviluppa dalla paura e dall'intimidazione ma anche da fattori psicologici profondi, come il rancore per la condizione sunnita».
Attenzione: nelle conclusioni del dossier si sottolinea che il successo militare è importante ma non necessario all'Is per conservare questo sostegno popolare. Certamente, «le vittorie sul campo e la percezione della popolazione del Califfato come difensore dei sunniti contro l'Occidente, contro gli sciiti e i contro i governi oppressori sono elementi correlati, che però hanno origini differenti». E quindi una ritirata non sarebbe letale per il Daesh. Potrebbe però dare un duro colpo al suo potere, sgretolandone alcuni pilastri. Perché «la capacità di controllare la popolazione e mantenere il consenso delle élite si fonda sulla convinzione che l'Is resterà al potere nel futuro».
Batterlo militarmente può incrinare il livello di fiducia nella sua «immagine di difensore dei sunniti». E a questo si può accompagnare quella che in Italia verrebbe chiamata “operazione zizzania”: stimolare la competizione tra i capi tribali tramite «la convinzione di avere ricevuto benefici e ricompense diverse per l'appoggio al Califfato. In molte zone, la perdita dell'appoggio dei gruppi dirigenti può avere un effetto negativo sulla lealtà della popolazione».
C'è infine un'arma a doppio taglio, quella della motivazione religiosa. È vero che «l'uso di tattiche e messaggi violenti gli inibiscono il sostegno della comunità sunnita» nella maggioranza del mondo arabo. Ma questa «interpretazione crudele della legge coranica è una vulnerabilità solo sul breve periodo». Secondo il dossier, da sola, una battaglia sul fronte della legittimità religiosa le non potrà disarmarlo. Servirà però a limitare il bacino di solidarietà per i suoi proclami.
La lettura del dossier mostra quanto sia complicata la situazione. Non ci sono terapie semplici, non basta bombardare e persino la sconfitta dell'esercito del Daesh potrebbe non essere risolutiva. La sua forza è in un'idea, le radici del suo successo affondano negli errori dell'Occidente. È questo il suo potere invisibile. Che richiede tante azioni convergenti, lunghe e costose, politiche, economiche, diplomatiche, militari. Una sfida che nessuno ha ancora lanciato.