Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono reclusi a Varanasi dal 2010 e condannati all’ergastolo per un delitto passionale il cui movente è «non dimostrabile per insufficienza di prove». Il 9 settembre è prevista la sentenza definitiva. Ma la diplomazia e l'attenzione mediatica sono concentrate solo sui fucilieri

Da milleseicento giorni sono rinchiusi nella prigione di Varanasi, la città sacra sulle sponde del Gange un tempo chiamata Benares. In quattro anni non hanno mai potuto telefonare a casa. Tomaso Bruno è di Albenga, provincia di Savona, Elisabetta Boncompagni di Torino. La loro vicenda processuale è stata spesso trascurata, mentre il caso dei marò - cominciato quando Tomaso ed Elisabetta erano già in carcere da due anni - ha definitivamente catalizzato l’attenzione politica e pubblica dei rapporti tra l’Italia e l’India.

La storia di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni comincia all’inizio del 2010. Entrambi lavorano a Londra e partono per un viaggio in India insieme a Francesco Montis, il compagno di Elisabetta. La notte del 4 febbraio i tre sono a Varanasi e fanno uso di hashish ed eroina. La mattina dopo Francesco non dà segni di vita e gli amici lo portano subito all’ospedale, dove viene dichiarato morto. Tomaso ed Elisabetta vengono arrestati con l’accusa di omicidio volontario di stampo passionale; dopo un anno di detenzione il pubblico ministero chiede la condanna a morte per impiccagione. Il 23 luglio 2011 sono condannati all’ergastolo; a fine settembre 2012 la pena è confermata in appello. Da allora i due italiani aspettano in carcere la sentenza della Corte Suprema di Delhi: dopo mesi di rinvii, martedì 9 settembre si attende la decisione definitiva.



I DUBBI SULLA SENTENZA DI CONDANNA
Dopo l’arresto sembrava che il processo potesse concludersi in breve, invece si è trascinato tra scioperi degli avvocati, ferie dei giudici, lutti, feste religiose e irreperibilità dei testimoni. La condanna all’ergastolo ha lasciato tutti sgomenti e le motivazioni del giudice sono sembrate da subito lacunose.

La condanna si basa infatti sui risultati della prima autopsia sul corpo di Francesco Montis: è stata realizzata da un medico oculista, che ha rilevato la morte per asfissia da strangolamento. La controperizia fatta eseguire dagli avvocati dello studio Titus di Delhi - che ha difeso Tomaso ed Elisabetta su suggerimento dell’Ambasciata italiana - ha evidenziato che la morte fu causata sì per asfissia, ma non da strangolamento. Non è stato possibile eseguire un nuovo esame perché il corpo di Francesco è stato immediatamente cremato. Il giudice non ha poi preso in considerazione testimonianze attendibili, come quella dei familiari di Francesco Montis, secondo cui il ragazzo aveva da tempo problemi di salute.

Nel passaggio chiave della sentenza di condanna, il giudice riporta: «Il movente che ha spinto i due accusati ad uccidere Francesco Montis non si può dimostrare per insufficienza di prove (..) tuttavia si può comunque ipotizzare che Tomaso ed Elisabetta avessero una relazione intima illecita». Gli avvocati difensori hanno sempre sostenuto che non si tratta di omicidio perché mancano prove e movente. La relazione amorosa tra Tomaso ed Elisabetta non ha mai avuto alcun riscontro, ma condividere la stanza è bastato per convincere i giudici. «Una ragazza che dorme in albergo con due ragazzi può essere normale in occidente - hanno spiegato alle famiglie gli avvocati - mentre in India è una situazione inusuale, non socialmente accettata».



«IN GALERA SENZA ACQUA POTABILE. A DORMIRE PER TERRA»
Dal giorno della morte di Francesco Montis sono passati quattro anni e mezzo, che Tomaso ed Elisabetta hanno passato interamente in galera. «Il District Jail di Varanasi è una struttura particolarmente dura rispetto ad altre prigioni indiane», racconta la madre di Tomaso, Marina Maurizio, che è già stata a Varanasi più di 20 volte per far visita al figlio. «La città ha un clima torrido e umido, di estate si sfiorano i 50 gradi. Le celle sono sovraffollate e le condizioni igieniche disastrose». Tomaso ed Elisabetta vivono in “barak” che ospitano sino a 140 detenuti. Assassini, stupratori, tanti mafiosi. Dormono per terra su strati di stuoie e coperte. Bevono acqua non potabile, che devono procurarsi da un pozzo comune in mezzo al carcere; nei bagni non c’è acqua corrente ed è vietato usare la carta igienica perché intasa i tubi. Hanno la corrente elettrica solo qualche ora al giorno. In caso di risse o violazioni delle regole gli uomini vengono presi a bastonate. «Ma Tomaso è sempre stato trattato bene», assicura la madre.

Tomaso ed Elisabetta vivono in due parti diverse della prigione. Non è permesso loro alcun collegamento a internet, l’unico contatto con il mondo sono i giornali che parenti e amici inviano dall’Italia. Nonostante le richieste fatte anche dall’Ambasciata italiana a New Delhi non sono mai state concesse telefonate ai genitori. «Ne avevamo domandata una al mese, ma ci è stata negata», lamenta Marina Maurizio. In casi analoghi, agli indiani è concessa la libertà su cauzione in attesa della fine del processo, ma il tribunale ha sempre negato questa possibilità temendo la loro fuga.

L’OPINIONE PUBBLICA E IL CASO MARO’
La vicenda di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni è stata poco seguita dalla stampa italiana. A settembre 2011, dopo la condanna all’ergastolo in primo grado, la trasmissione televisiva “Le Iene” è andata a Varanasi. Tomaso ed Elisabetta hanno raccontato l’esperienza con la droga, che da quel momento si è legata alla storia e ha intiepidito, se non reso ostile, l’opinione pubblica.

L’interesse diplomatico è stato inizialmente debole. Si sono occupati del caso i ministri degli esteri Giulio Terzi, Emma Bonino e Federica Mogherini. Dal 2012 il caso è si inevitabilmente legato alla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Nel febbraio di quell’anno, con Tomaso ed Elisabetta in attesa della sentenza di appello, i due fucilieri della Marina italiana in servizio antipirateria su una petroliera sono stati accusati di aver ucciso per errore due pescatori indiani. Da quel momento l’attenzione dell’Italia nei rapporti con l’India si è spostata sulla loro storia.

9 SETTEMBRE: LA SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA
Davanti alla Corte Suprema Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni saranno assistiti da un nuovo avvocato, Harin Rawal: è l’ex avvocato dello Stato del Kerala che nel “caso marò” ha messo in imbarazzo il Governo indiano, sostenendo la stessa posizione dell’Italia.

Se la Corte Suprema di Delhi deciderà per l’assoluzione, basterà aspettare i tempi tecnici per il ritorno a casa di Tomaso ed Elisabetta. Se invece la Corte confermerà la sentenza, verrà chiesta l’applicazione dell’accordo siglato nel 2012 tra Italia e India sul trasferimento delle persone condannate: i due potranno quindi scontare la pena in Italia. «Speriamo che giustizia sia fatta - spiega la mamma di Tomaso - O che almeno dopo più di quattro anni da incubo ci sia una sentenza definitiva. Così sapremo come comportarci».