Il terrorismo, le guerre. Ma anche i segni di sviluppo. E l’ombra della Cina. L’ex premier racconta la sua esperienza come inviato dell'Onu per il Sahel

Bisogna dare sostanza alla speranza», dice Romano Prodi. Via di Santo Stefano, centro storico di Bologna. Il professore è tornato da Mosca, dove ha discusso dell’incarico come consulente sulle “grandi migrazioni globali” prospettatogli «in modo inaspettato e molto gradito» da Vladimir Putin. Ma non è del prossimo G8 in riva al Mar Nero che Prodi parla in questa intervista con “l’Espresso”. Dietro ai pennoni con le bandiere dell’Italia e della Ue, nel suo studio ci sono quadri con la sagoma e i colori dell’Africa. È questo il continente della «speranza», che il professore e la sua piccola Fondazione per la collaborazione tra i popoli vogliono più unito su un piano politico ed economico. Un impegno sostenuto nell’ultimo anno anche attraverso il ruolo di inviato speciale del segretario generale dell’Onu per il Sahel. E che in Africa trova da tempo riconoscimenti diffusi. Non è un segreto che nell’estate 2011 ben 25 ex capi di Stato africani avevano individuato in Prodi il mediatore ideale per porre fine al conflitto civile in Libia. Era stata inviata una lettera a Ban Ki-moon ma poi, nonostante l’appoggio degli influenti capi tribù locali, il progetto si era arenato. Probabilmente anche a causa della contrarietà del presidente francese Nicolas Sarkozy e di Silvio Berlusconi.

Professor Prodi, il suo mandato come inviato dell’Onu scade il 31 gennaio. Com’è andata?
«L’idea di base era creare una politica economica comune, presupposto per la crescita di una delle aree più povere del mondo. Il Sahel è una grande fascia che va dall’Atlantico all’Eritrea, ma ci siamo concentrati su Mauritania, Ciad, Burkina Faso, Niger e Mali, Paesi molto isolati tra loro nonostante abbiano caratteristiche comuni. Nel mandato dovevano rientrare anche la sicurezza e la lotta al terrorismo. Le cose però sono cambiate quando è scoppiata la guerra in Mali. Delle questioni legate alla sicurezza si sono occupati i francesi e i responsabili delle forze delle Nazioni Unite».

Quali sono le priorità per lo sviluppo dell’area?
«Nel rapporto conclusivo che ho presentato al Consiglio di sicurezza, e che è stato approvato a dicembre, sono indicate cinque direttrici d’intervento. La prima è cibo, acqua e nutrizione, una scelta naturale in una regione dove manca tutto. La seconda sono le infrastrutture, perché se non si crea un sistema di comunicazione efficiente non ci potrà mai essere un’economia viva. La terza è la salute e la quarta la scuola. La quinta è un piano di energia decentrata. Il Sahel non ha alcuna rete elettrica ma è la regione del mondo che ha più sole. Senza elettricità non c’è la televisione, non si può studiare, non si può pompare l’acqua».

La comunità internazionale si è mostrata disposta ad aiutare il Sahel?
«Viaggiando in Europa, in Russia o negli Stati Uniti mi sono reso conto che c’è una riluttanza a dare soldi all’Onu. Perché ha per sua natura spese generali molto alte e tempi di esecuzione lenti, ma anche perché c’è un forte desiderio di appropriazione politica dell’aiuto. Ho quindi proposto che i Paesi possano donare sia in denaro sia “in kind”, cioè realizzare direttamente le opere necessarie e metterci su la loro bandiera. Naturalmente nell’ambito delle priorità fissate dall’Onu e sotto il controllo della Banca africana di sviluppo. È un cambiamento forte, con il quale si viene incontro alle caratteristiche dei singoli Paesi. La Cina può essere protagonista di un piano per l’energia solare decentrata; la Germania potrebbe costruire ospedali; l’Italia concentrarsi su agricoltura e irrigazione».

Oggi il Sahel è percepito come una priorità?
«Nei miei primi viaggi sentivo che lo era. Poi è stato sempre più difficile. C’era la Siria, poi l’Egitto. La mia paura è che il Sahel venga progressivamente non dico dimenticato ma messo in secondo piano».

Dei colloqui con i dirigenti africani cosa l’ha colpita di più?
«I momenti più intensi hanno sempre avuto a che fare con i temi della sicurezza e del terrorismo. Ricordo un incontro con Mohammed Morsi, all’epoca presidente dell’Egitto, uno dei pochi leader contrari all’intervento militare della Francia in Mali. Mi confidò di essere angosciato dal fatto che i terroristi del Sahel potessero creare una zona franca e arrivare fino al Sinai. Un altro punto fermo dei colloqui è come molti capi di Stato africani abbiano dato un giudizio negativo sulla guerra in Libia, causa scatenante di altre tragedie a sud del Sahara. Ogni azione militare, anche contro un dittatore, dovrebbe essere intrapresa con saggezza ed equilibrio; e tenendo conto delle conseguenze».

Il Sudafrica e il mondo hanno reso omaggio a Nelson Mandela. Quanto gli assomigliano i leader africani di oggi?
«Mandela è un esempio di “santità speciale” che fatica tantissimo a essere seguito. In Africa è ancora diffusa l’idea che il potere garantisca una proprietà personale sullo Stato e i beni pubblici. I miglioramenti nel campo della lotta alla corruzione sono lentissimi. Secondo Transparency International, negli ultimi anni sono stati ottenuti progressi in 21 Paesi mentre in 15 la situazione è rimasta uguale e in 17 è addirittura peggiorata. Il cammino verso la democrazia è difficile. Trent’anni fa incontrai Pieter Willem Botha, allora alla guida del Sudafrica. Gli parlavo della necessità storica della fine dell’apartheid, ma lui mi fermò dicendomi: “Caro professore, accetto tutti i consigli tranne quelli che mi fanno perdere il posto da primo ministro”. La grandezza di Mandela fu proprio quella di cambiare le cose senza spargimento di sangue».

Negli ultimi dieci anni l’Africa è cresciuta in media del 4,8 per cento, molto più di Europa o Stati Uniti. Il continente si sta risvegliando?
«Bisogna fare una premessa. La percentuale africana del Pil mondiale è la stessa del 1980. E il livello di vita resta bassissimo. È anche vero, però, che il continente vive un periodo di speranza. Incoraggia che Paesi privi di materie prime stiano crescendo un po’ più degli altri, smentendo una vulgata comune. L’Etiopia ha 80 milioni di abitanti ed è poverissima, ma cresce del 7 per cento l’anno. Cominciano a diffondersi politiche economiche migliori, attente all’inflazione e accorte nelle spese. C’è un’Africa dove le istituzioni si stanno modernizzando».

I benefici della crescita economica non rischiano di essere annullati dall’incremento demografico?
«Il presidente del Niger mi diceva che la popolazione del suo Paese raddoppierà nell’arco di 20 anni perché non è calato il tasso di natalità mentre si è abbassato il tasso di mortalità infantile. In Mali l’età mediana è di poco inferiore ai 18 anni. A livello continentale in una generazione si passerà da un miliardo e 80 milioni a due miliardi di abitanti. Traduca questi numeri in pressioni migratorie. È evidente che l’Europa ha interesse a uno sviluppo accelerato del continente. Eppure oggi l’Ue non ha una politica comune verso l’Africa. E conta sempre meno: un assurdo, considerando che resta il primo donatore».

L’ultima conferenza della sua Fondazione si è tenuta a Pechino. La Cina aiuta o sfrutta?
«È il Paese più interessato ad avere rapporti con l’Africa che è il primo esportatore mondiale di cibo, energia e materie prime. La Cina ha una sua convenienza ad acquistare questi beni, certo, ma poi li paga. E il recupero dell’Africa è cominciato solo quando la Cina ha iniziato a importare in modo massiccio. Poi ci sono diversi problemi. Come le rivolte nelle miniere per il trattamento dei lavoratori, in alcune zone, o le tensioni relative al controllo del commercio al dettaglio, in altre. La Cina, del resto, è l’unico Paese ad avere rapporti con tutta l’Africa. I frances i trattano con l’area francofona, gli inglesi con quella anglofona, gli Stati Uniti con parte dell’Africa occidentale e con altri Paesi amici. Nella nuova sede dell’Unione Africana, un grattacielo più maestoso del Palazzo di Vetro, c’è una targa con su scritto: “Dono del popolo cinese”»