Un programma di riforme in grado di rilanciare lo sviluppo richiede dieci, forse vent'anni. Per realizzarlo bisogna durare...

Per taluni aspetti l'economia italiana è una storia di successo: da una posizione di totale dipendenza dall'agricoltura, di diffuso analfabetismo e di grave sottosviluppo ai tempi della gioventù di mio nonno, l'Italia è riuscita a raggiungere uno degli standard di vita più elevati al mondo ed è entrata nel club del G-7 delle economie più importanti e ricche del pianeta. In media, le famiglie italiane sono tra le più benestanti e le meno indebitate al mondo, sono aiutate dalla solidarietà dei parenti e da una rete di tutele statali che in entrambi i casi farebbero l'invidia della maggior parte delle altre popolazioni. Anche dell'americano comune.

OLTRE A CIÒ , l'illustre tradizione italiana in fatto di letteratura e arti, e le grandi innovazioni imprenditoriali delle quali in passato è stata antesignana (per esempio nel settore contabile, delle banche e delle assicurazioni) trovano una trasposizione moderna in numerose imprese all'avanguardia, che costituiscono l'ossatura del quinto settore manifatturiero più importante al mondo. In Italia non c'è penuria di brillanti scienziati, economisti, studiosi di letteratura, musicisti, architetti, designer. E neppure di funzionari civili di livello internazionale. Più di ogni altra cosa, tuttavia, l'economia italiana oggi è un esempio del mancato adattamento a due importanti cambiamenti avvenuti nel ventunesimo secolo: la globalizzazione e la valuta comune europea. I sintomi del suo malessere sono la crescita più lenta tra i paesi di dimensioni rilevanti e gli alti tassi di interesse che il governo italiano applica rispetto ad altri paesi ricchi. Così le imminenti elezioni possono essere considerate una sorta di referendum sulla possibilità che gli italiani vogliano abbracciare entrambi questi cambiamenti, oppure opporsi a essi con tutti i mezzi a loro disposizione, come fin troppi di loro hanno fatto finora senza successo.

Gli effetti più importanti della globalizzazione (un consistente aumento dei commerci internazionali e degli investimenti, l'ascesa della Cina e di decine di altri paesi in via di sviluppo) sono opportunità e concorrenza. A giudicare dalla performance economica italiana, ancora una volta tra le più deboli al mondo dall'inizio del secolo, l'opportunità di penetrare nei mercati stranieri non è stata opportunamente colta, né si è fatto fronte alla concorrenza internazionale. Perché stupirsi di ciò? Del resto, secondo la Banca mondiale l'Italia si colloca in fondo alla classifica dei paesi sviluppati dove è più facile fare affari e per il World Economic Forum l'efficienza del mercato del lavoro italiano è 126esima (su 134). I paesi che occupano una posizione del genere possono attrarre investimenti e generare crescita se pagano imposte e salari come in Bangladesh, non certo come in Germania.

E QUESTO CI PORTA ALL'ALTRO grande cambiamento, l'euro, messo a punto per ridurre i costi delle transazioni, incentivare la convergenza economica e rafforzare politicamente l'Europa. Ma l'euro, proprio per come è stato concepito, ha come fondamentale conseguenza una perdita del margine politico economico di manovra. L'Italia non può ricorrere più alla svalutazione per compensare l'erosione della competitività: eppure, sulla base dei costi unitari di produzione, il costo del lavoro in Italia è superiore del 30 per cento a quello della Germania nel momento in cui si adottò l'euro. Oltretutto, l'Italia non può più stampare altra carta moneta per finanziare il deficit pubblico o rifinanziare il suo debito in scadenza. Di norma, gli stati che fanno parte di un'unione monetaria, rispecchiando la loro mancanza di margine politico di manovra e la loro impossibilità a reagire agli shock, hanno livelli di indebitamento bassi. Negli Stati Uniti i vari stati sono sotto al 10 per cento del Pil, per esempio, e anche l'indebitamento dei Lander tedeschi non supera di norma il 30 per cento del loro Pil. E allora gli stati che non possono battere moneta né svalutarla sono in grado di sostenere livelli di indebitamento pubblico pari al 120-130 per cento del Pil come in Italia senza correre il rischio di essere alla mercé degli eventi, dei mercati e della buona volontà dei loro vicini? Io credo di no.

GLI SFORZI DEL GOVERNO MONTI hanno portato l'Italia vicino al pareggio di bilancio e hanno corretto il ciclo economico, mentre per il momento i mercati sono stati rassicurati almeno in parte dalla promessa della Bce di intervenire per acquistare i bond statali. Lo spread resta alto, ma in ogni caso è sceso a livelli accettabili. Peccato che i livelli di indebitamento pubblico siano ancora in rialzo e le riforme abbiano fatto troppo poco finora per ripristinare la competitività italiana e risolvere il problema della crescita. La produzione industriale italiana al momento è inferiore del 25 per cento circa rispetto al 2007, mentre la disoccupazione è aumentata di oltre un milione di lavoratori e si prevede che la recessione continuerà nel 2013.

La verità è che le riforme indispensabili per la crescita (liberalizzazione e concorrenza nei mercati interni, governo ridimensionato e più efficiente, deregulation, riduzione dell'indebitamento pubblico, investimenti per migliorare istruzione e infrastrutture) sono appena all'inizio. Portarle a termine richiederà almeno 10 anni, forse 20. Gli italiani dovrebbero pertanto votare per coloro che hanno maggiori probabilità di intraprendere con determinazione queste riforme sul lungo periodo e viceversa dovrebbero assolutamente rifuggire dall'eleggere coloro che con parole o azioni dimostrano di non afferrare appieno quanto sia grave la loro crisi economica.