Oggi mi sento uno dei tanti che si sentono sperduti dentro un gioco crudele ed enormemente più grande di loro

È dentro di noi che tutto è cambiato, dall'11 settembre di New York. Qualche sera fa non riuscivo a prender sonno per una domanda tormentosa: dove potrei comprare una maschera antigas? Poi mi sono quietato dandomi un compito: devo cambiare le pile della mia torcia elettrica, che manda una luce debole, inservibile in un'emergenza. L'indomani la mia attenzione si è accesa su una notizia dagli Stati Uniti: pare che lì siano in vendita candele capaci di durare 150 ore. A quel punto, ho scoperto di vivere in uno stato d'animo mai provato: ridicolo e orribile, gonfio di ansia impaurita per il futuro e d'impotenza per il presente.

Siamo in guerra oppure no? La memoria non ti aiuta a scovare una risposta. Ho visto la seconda guerra mondiale da bambino e in una città del nord, sino all'ultimo istante. Ma proprio perché avevo dieci anni non ho ricordi orrendi. Pippo l'Aviatore, l'aereo solitario che ronzava come un calabrone notturno. Le bombe alleate sui ponti del Po. Qualche morto nel quartiere lungo il fiume. I partigiani di Tom condotti in catene alla fucilazione. I repubblichini fatti sfilare nelle gabbie di legno.

Da adulto ne ho scritto più volte, come se raccontassi un film, non una storia vera. E se lo confronto con l'angoscia di oggi, quel tempo (so di dire una bestemmia) mi appare quasi felice.

Poi ho vissuto da cronista i diciannove anni del terrorismo di casa nostra. Dal 1969 di piazza Fontana al 1988 dell'assassinio di Roberto Ruffilli, senatore dicì, uno studioso, un uomo di pace. In quel tempo ho avuto paura di essere anch'io gambizzato, ucciso, sequestrato. L'ho schivata per un pelo. Ma anche allora non mi sono mai trovato nel marasma di oggi. Avevo delle certezze. La prima è che avremmo vinto noi, gli italiani tranquilli, contro i killer rossi e neri. La seconda che bisognava respingere la linea suicida di chi gridava: né con lo Stato né con le Br. La terza era che, per farcela, occorreva essere duri nella risposta. E difatti il terrorismo cominciò a perdere quando s'iniziò l'epoca del generale Dalla Chiesa, delle irruzioni nei covi, delle carceri speciali, dei pentiti.

Oggi sono uno dei tanti che si sentono sperduti dentro un gioco crudele ed enormemente più grande di loro. Siamo costretti a concentrare lo sguardo su una scena in gran parte buia. Dove s'intravvedono soltanto alcuni fantasmi: Bush, Bin Laden, le cellule di terroristi islamici acquattate dovunque nel mondo, le folle che vogliono la guerra santa contro i nuovi crociati e gli ebrei. Tutti spettri che, in un'istante, ci fanno sentire inezie svaporate le domande di ieri. Come sarà la finanziaria di Berlusconi? E il conflitto d'interessi? E il congresso dei Ds, chi lo vincerà? Avremo un autunno caldo o no?

Ma vivere nell'ansia di un terrore sconosciuto ha anche un altro effetto. Guardo in tivù i big della politica italiana e mi accorgo che tutti, anche quelli che sento più vicini, sembrano maschere del passato. Hanno facce, voci, grinte, slogan stantii, inadeguati, al di sotto del caos in agguato. Mi domando: in chi posso riconoscermi? A chi posso domandare qualche briciola di fiducia e di speranza?

I cattolici hanno il Papa. I credenti hanno il loro Dio, che poi non è così giusto, visti gli orrori del mondo. E se ha permesso che, nella sola New York, in una manciata di minuti, undicimila bambini si scoprissero orfani. Io chi ho?

I pacifisti credono nella pace. Ma pacifisti lo siamo tutti, sia pure in forme diverse. Lo sono anch'io. Però ho una domanda per i pacifisti integrali, che sempre di più vedremo in piazza. La domanda, in realtà, è un'ipotesi. Provo a descriverla così: c'è l'attacco dell'11 settembre, l'America decide di non reagire, di rivolgersi all'Onu per chiedere mozioni, indagini, tribunali internazionali... Che cosa fanno gli altri, quelli che hanno mandato gli aerei contro le Torri Gemelle. Si fermano? Si accontentano della resa dell'Occidente che comincia a pentirsi della propria potenza, della ricchezza, delle arroganze verso la metà del mondo, quella povera e che muore di fame? Oppure, questi "altri" vanno avanti, per assestare nuovi colpi devastanti, da guerra chimica, batteriologica, nucleare?

Il male totalitario, come lo chiama Barbara Spinelli, è tale proprio perché non rispetta alcuna resa. Anzi, ne ricava incitamento alla guerra di conquista. L'abbiamo già visto nel 1939. In quell'anno, che pochi ricordano, molti europei s'illusero che Hitler si accontentasse di mezza Polonia. Invece Hitler andò avanti e cercò d'impadronirsi del mondo.

Chi non si arrese dopo quel primo colpo, ebbe ragione. E salvò l'Occidente che conosciamo: una democrazia imperfetta, ma in un pianeta che non ha ancora trovato nulla di meglio in grado di sostituirla. E allora non resta che accettare questo conflitto che s'annuncia. Sì, accettarlo, anche se di mala voglia. Un guerriero riluttante: ecco come mi sento. Lo dico senza orgoglio, senza proclami, senza fanfare.