Liste di attesa infinite, pronto soccorsi al collasso, pochi medici, finanziamenti in calo. Mentre cresce a tassi record la spesa privata. È questa la “cartella clinica” del nostro Sistema sanitario nazionale, mentre per il 24 giugno la Cgil organizza una manifestazione a Roma per riportare il tema al centro dell’agenda politica

Lunghissime liste di attesa, Pronto Soccorso allo stremo, medici di medicina generale assenti in molte aree del paese, massiccio ricorso alle cure del privato (con relativo esborso dalle tasche dei cittadini) per far fronte al deserto sanitario del pubblico, generale sotto-finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, interi settori – dalla Salute Mentale all'assistenza agli anziani – abbandonati a se stessi: ce n'è abbastanza per far insorgere un intero paese. Vedremo quindi quanti cittadini riuscirà a portare in piazza del Popolo, a Roma, la Cgil sabato 24 giugno per una Manifestazione a difesa del Servizio Sanitario Nazionale, che ha già raccolto l'adesione di un'ampia rete di associazioni.

 

Partiamo dai numeri del dissesto sanitario
Lo Stato italiano spende 126 miliardi in sanità, 1.947 euro a cittadino, cioè il 6,4 per cento del Pil.
Siamo ben distanti da Francia e Germania, dove sulla sanità si investe il 10 per cento del Pil. Per capirci, ogni anno l'Italia dovrebbe mettere sul piatto della finanziaria altri 20 miliardi per eguagliare il Regno Unito e il Portogallo, oppure 40 miliardi per essere come Francia e Germania. Anche l’Ocse ha dichiarato che l’Italia, per garantire la tenuta sociale del Paese, dovrebbe spendere almeno 25 miliardi in più all’anno. A parole tutti difendono l’Ssn («Sono un fervente sostenitore della sanità pubblica», dice il sottosegretario al ministero della Salute, Marcello Gemmato, in quota Fratelli d’Italia), nei fatti quest’anno sono stati appostati due miliardi di euro in più: briciole. Del resto sono 20 anni che la spesa sanitaria è un elettroencefalogramma piatto e gli aumenti coprono soltanto i maggiori costi dell’inflazione.

 

Gli italiani aggiungono di tasca propria altri 41 miliardi per curarsi: un record mondiale. Vanno poi aggiunti altri 9,6 miliardi sborsati per assistere figli disabili e genitori anziani, più 9,1 miliardi di trasferimenti diretti alle famiglie dall’Inps che, sotto la veste di assegni di accompagnamento, alimentano il mercato privato e spesso informale delle badanti. In sintesi, ogni famiglia spende di tasca propria 2.200 euro l’anno per curarsi. A proposito di ricorso al privato, il centro di ricerca Cergas Bocconi, che monitora il Ssn, stima che tre famiglie su dieci a causa di impreviste spese per la salute stanno rischiando di scivolare sotto la soglia di povertà e oltre il nove per cento ha impegnato per le cure più del 40 per cento del denaro a propria disposizione. Si tratta di un altro record negativo italiano al confronto con gli altri Paesi dell’Europa occidentale.

 

E per il prossimo futuro andrà anche peggio: l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil scende al 6,5 per cento nel 2023 e al 6,1 nel 2025, in calo di oltre un punto e mezzo rispetto al 2022, al di sotto dei livelli pre-pandemici (era al 6,4 per cento nel 2019) e parecchio distante dalla media europea del 7,9.

 

Manca il personale
Otto assunzioni su dieci fatte nei mesi della pandemia sono state a termine. Quindi i nuovi ingresso a tempo indeterminato sono solo 17 mila: un numero non sufficiente a compensare le uscite per pensionamenti e burnout dovuti all’elevata età del personale e ai livelli di stress subiti in reparto e negli studi medici. Avverte Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che oggi sono in servizio 103mila medici e 264mila infermieri, ma entro il 2027 andranno in pensione 41mila medici e 21mila infermieri. Oggi, stima la Federazione Nazionale Ordine dei Medici, mancano all’appello 20mila medici, di cui 4.500 nei pronto soccorso, 10mila nei reparti ospedalieri, sei mila medici di base.

 

Il buco degli infermieri
Le Università si preparano a formare 2.779 medici di base all’anno e 14.387 specialisti: pochi per stare al passo con le uscite. E se il numero di medici in servizio, nonostante le criticità, continua a essere in linea con quello europeo è invece l’infermieristica il tallone d’Achille. Sempre Agenas dice che l’Italia registra un tasso molto inferiore alla media europea con 6,2 infermieri per mille abitanti, contro gli 11 della Francia e i 13 della Germania. «In risposta alla carenza di medici, diversi Paesi hanno iniziato a implementare ruoli più avanzati per gli infermieri», scrive Agenas nel report, dove cita la Finlandia a titolo di esempio: «Qui le competenze più avanzate degli infermieri hanno migliorato l’accesso ai servizi e ridotto i tempi d’attesa, fornendo la stessa qualità delle cure». Da noi l'assenza di infermieri significa che i medici svolgono compiti che nei sistemi sanitari più moderni sono eseguiti dalle professioni sanitarie. Invece in Italia dell’infermiere continua a essere un mestiere poco pagato e non attrattivo, con 1,6 candidati per ogni posto in Università (contro il rapporto 7 a 1 del concorso a medicina), determinando un tasso di abbandoni addirittura del 25 per cento. Risultato: nei prossimi cinque anni usciranno dall’Università molti più medici specializzati che infermieri e paradossalmente questa situazione aumenterà la percezione che mancano dottori, semplicemente perché ci abitueremo a pensare che funzioni assistenziali, tipiche delle professioni sanitarie, vengano assolte dai camici bianchi.

 

L'illusione del Pnrr
La speranza di invertire la rotta con i 18,12 miliardi portati in dote dal Pnrr per creare nuovi ospedali, case della comunità, sistemi digitali di medicina territoriale a domicilio e ammodernamento tecnologico svanisce quando si considera che per far funzionare le nuove strutture servono fra i 30 e i 100 mila infermieri, che costano fra i 3 e i 7,8 miliardi annui. Soldi e personale che non sono neppure stati preventivati.

 

Gli effetti del sottofinanziamento
Come racconta il Rapporto Civico sulla Salute presentato a Maggio da Cittadinanzattiva la scarsità di risorse – economiche e professionali – si evidenzia principalmente nell'allungamento a dismisura delle liste d'attesa. Servono due anni per una mammografia di screening, tre mesi per un intervento per tumore all’utero che andava effettuato entro un mese, due mesi per una visita specialistica ginecologica urgente da fissare entro 72 ore, sempre due mesi per una visita di controllo cardiologica da effettuare entro 10 giorni. Sono alcuni esempi di tempi di attesa segnalati dai cittadini che lamentano anche disfunzioni nei servizi di accesso e prenotazione, ad esempio determinati dal mancato rispetto dei codici di priorità, difficoltà a contattare il Cup, impossibilità a prenotare per liste d’attesa bloccate.

 

Il secondo effetto, col quale facciamo i conti da almeno dieci anni, è la costante riduzione dei servizi di emergenza urgenza: si conta una riduzione sul territorio nazionale di 61 dipartimenti di emergenza, 103 pronto soccorso, 10 pronto soccorso pediatrici e 35 centri di rianimazione. Subiamo una riduzione di 480 ambulanze di tipo B, un incremento di sole 4 ambulanze di tipo A (ma nel 2019 il decremento rispetto al 2010 era di 34 unità), un decremento di 19 ambulanze pediatriche e di 85 unità mobili di rianimazione.

 

Anche rispetto alla tempestività dell'arrivo dei mezzi di soccorso, la situazione è peggiorata significativamente e in modo preoccupante: è il caso della Calabria in cui il mezzo di soccorso arriva mediamente in 27 minuti, Basilicata 29 minuti e Sardegna 30 minuti, quando la media nazionale è di circa 20 minuti.

 

Il terzo elemento di rischio è la riduzione dei fondi destinati alla prevenzione. Sono sei le regioni (erano tre nel 2019) che non raggiungono la sufficienza rispetto ai criteri Lea, ovvero i livelli essenziali di assistenza, per la prevenzione: in particolare a Sicilia, Bolzano e Calabria, che mostrano i dati più bassi, si aggiungono nel 2020 Liguria, Abruzzo e Basilicata.

 

Gli scenari
«È il momento di dire la verità», dice Mario Del Vecchio, professore di Economia all'Università Bocconi di Milano, che continua: «Con le scarse risorse a disposizione, il Servizio Sanitario Nazionale non può offrire un servizio universale. Serve un ridimensionamento delle aspettative e la politica deve ammettere la necessità di un sistema ibrido, pubblico e privato, cercando di governarlo, con un’attenzione esplicita alle iniquità». Nella migliore delle ipotesi, Del Vecchio ipotizza una collaborazione tra pubblico e privato, ma non esclude uno scenario segnato dalla massima disuguaglianza se il privato continuerà a competere e a viaggiare in parallelo al pubblico senza una regia di quest'ultimo. In tal caso si prefigura uno scenario argentino, nel senso di un totale default dell'Ssn.

 

Ad avere assistenza saranno i cittadini che possono permettersi cure private. Del resto già ora gli italiani pagano di tasca propria il 75 per cento delle visite specialistiche, il 62 per cento di tac, ecografie e altri accertamenti diagnostici, l’81 per cento dei trattamenti di riabilitazione. I cittadini sborsano 678 euro di tasca propria per curarsi. E si tratta di una media: nel dettaglio si passa dagli 849 euro della Lombardia ai 364 euro investiti privatamente dai campani.

 

Perché non si scende in piazza?
Il finanziamento alla Sanità è materia di discussione di ogni Finanziaria. Nel senso che i soldi destinati a questo capitolo di spesa pubblica vengono decisi ogni anno in base alle disponibilità economiche di quel momento. E visto che la Sanità non è mai un argomento su cui i partiti politici fanno battaglie di principio – come invece si fa sulle pensioni e sulle concessioni balneari – restano solo le briciole per il Ssn. «È quello che vogliono gli italiani. La collettività ha legittimamente scelto politiche che ridistribuiscono il denaro nelle proprie tasche, come gli 80 euro del bonus Renzi, Quota 100 e altri anticipi pensionistici, il reddito di cittadinanza, il taglio al cuneo fiscale: misure che valgono 42 miliardi l’anno», mostrando come dal 2012 i trasferimenti economici alle famiglie hanno superato la spesa sanitaria. «Non c’è un partito politico che si batte come un leone per destinare più soldi al fondo di sanità pubblica in occasione del tradizionale assalto alla legge finanziaria di fine anno».

 

Occhi puntati, dunque, sulla manifestazione di Piazza del Popolo del prossimo 24 giugno, sperando in un'alta adesione. Che per altro segue a poca distanza quella dello scorso 15 giugno indetta dai medici di Anaao-Assomed che ha portato in piazza migliaia di cittadini in 36 città d'Italia, e quella di inizio maggio in cui Cittadinanzattiva ha aperto la petizione su Change.org “Urgenza sanità: per il rilancio di un servizio sanitario accessibile e universale” perché, come spiega Anna Lisa Mandorino, segretaria di Cittadinanzattiva: «Ci sentiamo di proclamare noi questa volta lo stato di emergenza sanitaria, che scioglieremo quando avremo la prova concreta che le scelte e le politiche stanno andando nella direzione di rafforzare la sanità pubblica governando quella convenzionata, che ci sono all’orizzonte investimenti sufficienti a finanziare le riforme già previste, come quella per l’assistenza agli anziani non autosufficienti e per il ridisegno dell’assistenza territoriale, e che Stato e Regioni stringano un Patto per la salute con l’unico obiettivo di mettere al centro il diritto costituzionale di ogni individuo e della collettività».