Il ministero della Cultura pubblica il tariffario per lo sfruttamento dell’immagine dei beni statali. Un provvedimento anacronistico, basato su una legge che risale all’epoca in cui Internet non c’era. E di cui è padre un funzionario caro alla destra

Folgorante la reazione di Dino Soldini, commissario della Camera di Commercio di Massa Carrara. «Se faccio una foto alle Alpi Apuane e la metto su Instagram devo pagare un canone?», si sfoga con il giornale online La Voce Apuana. Il tribunale di Firenze ha appena condannato a giugno 2022 uno studio d’arte che ha realizzato una copia marmorea del David di Michelangelo, poi utilizzata per pubblicità. Per di più vestita con lo smoking. Il ministero dei Beni Culturali ha chiesto i canoni di concessione per lo sfruttamento dell’immagine della statua, oltre ai danni. Soldini giustamente trasecola.

 

Però non c’è niente da fare. Poche settimane fa il tribunale fiorentino rincara la dose con una nuova ordinanza, affermando che accostare «l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello» umilia «l’alto valore simbolico e identitario dell’opera d’arte». Possiamo solo ipotizzare che cosa avrebbero sentenziato gli stessi giudici a proposito dei baffi disegnati nel 1919 sulla riproduzione della Gioconda di Leonardo dal grande artista surrealista Marcel Duchamp… Senza dire che con questa logica si dovrebbe perseguire l’intera filiera del souvenir. Miliardi di riproduzioni di statue, quadri, monumenti, stampate perfino su t-shirt e grembiuli da cucina. Più “svilenti” di così?

 

E non sorprende nemmeno l’esultanza del ministro Gennaro Sangiuliano, considerato che il titolare della Cultura ha appena sfornato il tariffario per lo sfruttamento dell’immagine dei beni culturali. Un tariffario come per i taxi, o qualsiasi altro servizio pubblico. Con la differenza che qui, oltre ai soldi dovuti (giustamente) per le fotocopie o l’affitto degli spazi, è prevista anche una tassa. Avete capito bene. Una tassa di concessione sulle immagini pubbliche nell’era di Internet, della globalizzazione e dell’intelligenza artificiale! Chi fosse interessato ai particolari legga il decreto ministeriale 161 dell’11 aprile 2023, allegato compreso. Se riuscirà, peraltro, a districarsi nei suoi meandri incomprensibilmente cervellotici.

 

Il bello è che questo capolavoro non è neppure farina del sacco del ministro. Il genio della lampada è Antonio Leo Tarasco, capo del suo ufficio legislativo. Classe 1975, è dirigente del ministero dal 2010. Durante l’evanescente gestione del ministro Alberto Bonisoli, primo governo Conte, si distingue per il bando della Certosa di Trisulti concessa in uso ai sodali dell’ex ideologo sovranista di Donald Trump, Steve Bannon. Assegnazione poi revocata da Dario Franceschini, con conseguente congelamento degli incarichi di Tarasco. Il quale, tuttavia, non si dà per vinto e trasloca alla corte della ministra del Sud, Mara Carfagna. In attesa della rinascita, con lo sbarco di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e l’invasione sovranista dei ministeri. Eccolo dunque di nuovo al Collegio Romano dove può finalmente tradurre in atti concreti le sue teorie.

 

La morsa sul ministero è completa. Capo di gabinetto di Sangiuliano è infatti il giovane consigliere del Senato Francesco Gilioli. Che di Tarasco, vuole il caso, è socio. Insieme hanno messo su, in piena pandemia, la Società italiana per l’ingegneria culturale: Tarasco è presidente e Gilioli il suo vice. È una «associazione di studiosi, esperti e appassionati di patrimonio culturale». Però non ha un sito, né una sede, né si sa chi siano gli altri aderenti oltre alla coppia che ha in mano le redini del ministero. C’è solo una pagina Facebook, con 529 follower. Ma almeno l’obiettivo è chiaro. Chi usa le immagini dei beni culturali deve pagare: Tarasco lo dice in ogni documento pubblico. Perfino in un’audizione al Senato. E ora, dal ponte di comando del Collegio Romano, quella tesi diventa legge. Con un colpo di spugna sul piano nazionale della digitalizzazione di Franceschini che aveva stabilito la gratuità delle immagini per l’intera editoria.

 

E qui si configura una singolare forma di conflitto d’interessi. Può un burocrate pubblico, il quale dovrebbe eseguire direttive spettanti solo alla politica, utilizzare il ruolo istituzionale rivestito per fare una legge modellata sulle proprie idee personali? Probabilmente non è l’unico caso, ma di sicuro il più eclatante per i suoi effetti. Il tariffario Tarasco ha provocato una rivolta nel mondo della cultura. Ha già raccolto circa seimila firme un appello promosso da società di storici e associazioni di operatori ed esperti, con il quale si chiede al ministero di fare marcia indietro. Anche perché il decreto non risparmia dai balzelli neppure le pubblicazioni scientifiche.

 

Non bastasse, proteste si sono levate dal quotidiano dei vescovi. «Le opere nei musei italiani rientrano nella categoria del pubblico dominio e sono libere da diritti», si è inalberato l’Avvenire. E perfino dalla Treccani che è dello Stato. Ha risposto Tarasco in una lettera dai toni perentori: ho solo applicato la legge. E per quanto possa sembrare assurdo, è vero. La tassa è stata introdotta da un decreto del ministro Alberto Ronchey, emanato nel 1994. Ma in un’altra era geologica. Basta dire che nel 1994 non avevamo Internet.

 

Poi è vero che il codice dei beni culturali di Giuliano Urbani l’ha confermata nel 2004 con l’articolo 108. Anche 19 anni fa, però, eravamo in una specie di giurassico: tablet e smartphone erano oggetti sconosciuti. E comunque c’era ancora il divieto di fare fotografie nei musei, poi abolito nel 2014. Perché lottare contro la modernità è stupido e dannoso. Non a caso quell’articolo del codice è stato sempre applicato con assoluta elasticità. Né la scarsa redditività dei nostri beni culturali, motivazione alla base della pensata di Tarasco, subirebbe una impennata grazie alla tassa sulle immagini. Tutti gli esperti sono convinti che i costi per la gestione del tariffario sarebbero mostruosamente superiori agli incassi.

 

Per capire quanto il mondo sia cambiato basta fare un giro sul Web. Le immagini dei beni esposti nelle maggiori entità culturali del pianeta sono ormai totalmente libere, e noi pensiamo che sia ancora possibile (ma soprattutto economicamente utile) imporre una anacronistica tassa ministeriale sulla riproduzione del Colosseo? Finirà che si preferirà usare immagini di opere d’arte italiane esposte all’estero, dove la tassa non c’è, penalizzando il nostro patrimonio. Complimenti. Per non parlare del fatto che questo assurdo principio della tassa di concessione vale solo per i beni statali e non per quelli comunali o regionali. Un esempio? A Roma non vale per la Colonna Traiana, che è del Comune. Mentre vale per la parte dei Fori Imperiali di proprietà statale, a 50 metri da lì.

 

Del resto l’ottusità della politica (e della burocrazia) in materia è dimostrata dal modo in cui è stata recepita la direttiva Ue del 2019 sul diritto d’autore. Nel 2021 la legge italiana l’ha abolito assieme ai «diritti connessi» alla scadenza dei fatidici 70 anni, ma lasciando in vita l’articolo 108 del codice Urbani: quello che, appunto, prevede l’anacronistica tassa di concessione sulle immagini dei beni culturali. Una contraddizione clamorosa.

 

Ma tant’è. Un governo con lo sguardo rivolto al futuro avrebbe dovuto abolirlo, quell’articolo 108 del codice Urbani di quasi vent’anni fa. Magari lasciando a ciascuna istituzione culturale anche la libertà di stabilire il costo delle fotocopie e il prezzo per l’uso degli spazi. Si va invece in direzione opposta. Cioè verso il passato, come tutto il resto. Nel solco del divieto a produrre carne sintetica, della guerra ai figli delle coppie omogenitoriali, delle multe per chi usa parole straniere, del ritorno alla naia…