Da Alessandria a Messina, da Sarno alla Romagna, trent’anni di disastri hanno colpito in ogni regione causando oltre 1.600 vittime e 320 mila sfollati. Ma la cementificazione continua, anche lungo i fiumi e nelle aree più pericolose: ecco le mappe di rischio

Un’emergenza cronica, uno stato di pericolo permanente, che minaccia quasi tutti i Comuni italiani. Le disastrose alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna in questo mese di maggio non si possono considerare una fatalità imprevedibile, né un problema straordinario di un singolo territorio. Metà della regione è classificata da anni, ufficialmente, tra le «aree a rischio» di inondazioni, crolli e smottamenti. E per estendere l’allarme all’intero territorio nazionale basta elencare alcune delle «migliaia di località» italiane che, solo negli ultimi trent’anni, sono state colpite dalle alluvioni e dalle frane più rovinose.

 

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Una lista da non dimenticare: Alessandria (1994), Sarno e Quindici (1998), Nord del Piemonte e Valle d’Aosta (2000), Valcanale in Friuli (2003), Cavallerizzo di Cerzeto (2005), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Montaguto (2010), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), Genova (2011 e 2014), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), Bitti (2020), Senigallia (2014 e 2022), Ischia (2022), Emilia-Romagna (2023).

 

L’Italia, per natura, ha un territorio ad alto rischio di alluvioni, smottamenti (con più di un quarto del totale delle frane censite in Europa), terremoti, erosioni costiere, eruzioni vulcaniche. Nel 2022 l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha localizzato «aree di pericolosità idrogeologica», con rischi rilevanti di dissesto, nel 93,9 per cento dei Comuni italiani. Il problema, avvertono gli esperti, è aggravato dagli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Ma anche dalla cementificazione del suolo, che continua ininterrotta da più di mezzo secolo: solo nel 2021 sono stati cancellati più di 69 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari.

 

In Italia, in media, spariscono ogni giorno 19 ettari di verde: più di due metri quadrati al secondo. È tutta terra fertile – in grado di assorbire l’acqua, depurarla e regalare vita a piante e animali – che viene ricoperta da una crosta morta di cemento e asfalto: uno strato impermeabile che cancella le difese naturali e favorisce il dissesto.

 

Oggi più di due milioni e 400 mila italiani vivono in case con «pericolo elevato» di inondazioni. Sommando le zone a «rischio medio», la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni. Le frane più gravi minacciano 565 mila costruzioni, con più di un milione e 300 mila residenti.

 

Territorio fragile, edilizia sregolata, interessi privati, politica incapace o complice: una miscela che è all’origine di troppe tragedie nazionali. In Italia, dal 1971 al 2021, frane e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, oltre 320 mila senzatetto. Nonostante questi dati, la cementificazione non si ferma neppure sui terreni già classificati come pericolosi.

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Le foto aeree raccolte dall’Ispra documentano che in cinque anni, dal 2017 al 2021, sono stati costruiti appartamenti, strade, parcheggi, capannoni e supermercati in più di 1.313 ettari di «aree franose», sparsi in tutte le Regioni. Circa un terzo di questa massa di fabbricati è stata realizzata su terreni a rischio «elevato» o «molto elevato»: al primo posto, nella classifica dell’azzardo edilizio, c’è la Campania. Le altre regioni con il maggior numero di residenti in aree minacciate da frane e alluvioni sono Emilia, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria.

 

Un rapporto del Wwf pubblicato nel 2022 denuncia che molte amministrazioni locali autorizzano interventi edilizi anche vicino ai fiumi, proprio dove dovrebbero sfogarsi le ondate di piena: «Negli ultimi 50 anni, circa duemila chilometri quadrati di aree naturali di esondazione hanno subito varie forme di urbanizzazione», segnala l’organizzazione ambientalista: «Cemento e asfalto oggi ostruiscono dal 3 al 25 per cento di tutte le sponde dei corsi d’acqua».

 

I dati dell’Ispra documentano che, solo nel 2021, sono diventati artificiali 361 ettari di suolo a «elevata pericolosità» per le alluvioni. In Liguria risulta cementificato il 23 per cento dei terreni a massimo rischio di straripamento di fiumi e torrenti. Il problema è grave anche in altre regioni, dal Trentino al Veneto, dal Lazio alla Sicilia, dove è a rischio circa un decimo del territorio occupato da attività umane.

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Le prime norme contro il dissesto furono approvate dopo la storica alluvione del Polesine, che nel novembre 1951 causò oltre 100 vittime e 180 mila sfollati. Nei successivi trent’anni sono state approvate dieci leggi speciali, poi seguite da molte altre, varate sempre dopo ulteriori disastri. Dal 2007 una direttiva europea ha imposto di adottare piani territoriali coordinati contro le alluvioni. E dal 2030, se il governo non cambierà idea, anche l’Italia dovrebbe applicare le norme europee che puntano a ridurre il consumo di suolo, fino ad azzerarlo. Intanto, però, si continua a cementificare.

 

Al ritmo attuale, entro il 2030 in Italia spariranno altri 570 chilometri quadrati di terreni verdi: la miglior difesa naturale, gratuita e rinnovabile contro i disastri.