Per le stazioni di rifornimento erano a disposizione 230 milioni, ma più della metà sono andati perduti. Colpa di un bando fatto male dal dicastero guidato oggi da Matteo Salvini

Matteo Salvini lancia il guanto di sfida a Bruxelles. «Spenderò fino all’ultimo euro del Pnrr», giura. Ma «sempre che la Commissione Europea mostri buon senso», tiene a precisare. Peccato che la prima bacchettata per non aver speso una discreta fetta delle risorse di un capitolo del mitico Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sia arrivata proprio al suo ministero. E per dovere di cronaca va pure detto che Bruxelles non c'entra un bel niente.

 

Se ben oltre metà dei 230 milioni destinati a realizzare sulle strade italiane una rete di distributori per i veicoli alimentati a idrogeno sono rimasti inutilizzati, la colpa è tutta e unicamente del ministero delle Infrastrutture. Almeno è quello che dice la Corte dei Conti in un rapporto pubblicato qualche giorno fa.

 

E quanto accaduto non può affatto essere considerato un semplice infortunio, viste le conclusioni cui arriva il collegio presieduto da Massimiliano Minerva. Nel rapporto dei giudici contabili c’è scritto che la deplorevole situazione verificatasi è il risultato di «gravi irregolarità gestionali». Così gravi da giustificare la richiesta ai vertici del ministero di individuare «i dirigenti responsabili delle stesse» per «l’adozione delle relative procedure previste dall’ordinamento». A quale esito possa preludere un invito tanto categorico si comprende per il riferimento a un articolo, esattamente il numero 21, del Decreto Legislativo sui doveri dei dipendenti pubblici approvato il 30 marzo 2001. Praticamente, uno degli ultimi atti del secondo governo di Giuliano Amato che porta la firma del suo ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini. Quell’articolo stabilisce che il dirigente ritenuto responsabile di non aver onorato i compiti assegnati può essere revocato dall'incarico. E nei casi di negligenze gravissime perfino licenziato.

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Che cosa è successo viene raccontato nel rapporto con dovizia di particolari. Il Pnrr italiano approvato da Bruxelles contempla fra le varie iniziative di ispirazione ambientalista la costruzione di almeno 40 stazioni di rifornimento a idrogeno. Questo in sintonia con una direttiva europea del 2014 che ammette finanziamenti pubblici necessari alla realizzazione di infrastrutture per la distribuzione dei combustibili alternativi ai derivati del petrolio. Gli impianti devono essere almeno 40. Lo stanziamento è di 230 milioni, e per metterlo in moto serve un decreto del ministero delle Infrastrutture che fissi i criteri per la localizzazione dei distributori. Da scrivere anche in fretta, considerando la tempistica. Comunque non oltre il 31 dicembre 2021, visto che il provvedimento dovrà essere seguito da un altro decreto per stabilire le condizioni del finanziamento e le modalità di partecipazione alle gare. Che a loro volta devono tassativamente concludersi entro il 31 marzo 2023 perché gli impianti devono risultare in esercizio il 30 giugno 2026. Pena, la perdita dei denari europei.

 

E qui c'è il primo intoppo. Per sfornare il primo decreto si perde un sacco di tempo. Almeno sei mesi. Alle Infrastrutture non è ancora stato avvistato Salvini: sono gli ultimi mesi di lavoro del suo predecessore Enrico Giovannini. Il capo della Lega arriva con tutto il governo di Giorgia Meloni poco prima che il ministero partorisca il secondo decreto, il 10 novembre 2022. Il ritardo a quel punto è diventato enorme e la corsa contro il tempo si rivela un disastro. Come sempre, la fretta gioca brutti scherzi. Il più brutto, se però davvero causato dalla fretta e non da qualcos’altro, è l'avviso di gara. Nonostante le regole prevedano la partecipazione delle imprese di tutti gli Stati membri, il bando non viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea. Neppure, sottolinea la relazione della Corte dei Conti, risulta reperibile attraverso «altre forme di pubblicità idonee» a informare i concorrenti europei eventualmente interessati. Compare unicamente nel sito del ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Alla richiesta di dare spiegazioni il ministero, affermano i giudici contabili, «non ha fornito chiarimenti».

 

Uno scivolone imperdonabile. Secondo la Corte dei Conti è per questa ragione che l’operazione idrogeno è fallita. Fallimento è il termine adatto, non essendo stato raggiunto il minimo di 40 impianti previsti dal Pnrr. Le pratiche accolte e finanziate sono infatti appena 36. Anzi, 35: perché un investitore ha rinunciato dopo aver fatto i conti. E dei 230 milioni ne sono stati impegnati meno di 102, rinunciando in tal modo al 56 per cento delle risorse. Con il rischio, neppure troppo remoto, di vedersi sospendere anche il pagamento di quei pochi soldi, nel caso in cui il giudizio della Commissione sul modo in cui tutto è stato gestito risultasse negativo.

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Ma le cause del clamoroso flop, dice ancora la Corte dei Conti, non si limitano alla fretta e a un avviso di gara pressoché clandestino. Il fatto è che il decreto ministeriale ha stabilito per il contributo europeo un limite del 50 per cento del valore dell'investimento, in contrasto con regole comunitarie che consentono di coprire con i fondi pubblici l’intero 100 per cento dei costi, assolutamente proibitivi per progetti ancora in fase sperimentale. Sapendo come vanno le cose in questo Paese (il caso dei superbonus insegna) l’intento era probabilmente quello di impedire abusi. Ma il risultato è stato quello di scoraggiare molti operatori. Si capisce chiaramente dall’elenco delle domande accolte, quasi tutte di grandi gruppi con le spalle larghe: dall'Eni alla Snam, per arrivare a Edison, Q8, Italgas e vari concessionari autostradali. Per non dire del fatto che al Sud gli impianti sono appena 6 per un finanziamento di 13 milioni, il 12,5 per cento del totale anziché il 40 per cento stabilito dalle regole generali del Pnrr. Neanche uno in Basilicata, Molise, Campania e Sicilia.

 

La vicenda è preoccupante non soltanto per questo frammento, tutto sommato relativamente modesto, del Piano, ma perché indicativa delle clamorose lacune della nostra burocrazia. E se cose del genere possono accadere in un grande ministero per un investimento da 230 milioni, corre un brivido lungo la schiena a immaginare ciò che potrebbe succedere nel pulviscolo immenso delle micro-iniziative finanziate con i fondi del Pnrr. Affidate ad amministrazioni locali spesso incapaci di fare i progetti necessari per utilizzarli. Quasi 80 mila sono di importo inferiore a 70 mila euro. Auguri.