Il colosso del trasporto merci è stato commissariato con l’accusa di aver impiegato oltre 18 mila camionisti precari e sottopagati. L’indagine nata dalla denuncia di una sindacalista che ha rifiutato una tangente

Il 18 ottobre 2021 una sindacalista della Cgil ottiene un incontro, che chiedeva da tempo, con una commercialista di un consorzio milanese di trasporti, che si è impegnata a consegnarle carte legali. Il consorzio è sospettato di sfruttare i lavoratori: camionisti e facchini precari e sottopagati. La commercialista va di fretta e le consegna il plico per strada, vicino a un centro commerciale di Sesto San Giovanni. Tornata in sede, la sindacalista apre quella cartellina rossa e scopre che non contiene buste paga e contratti: dentro un foglio bianco ci sono venti banconote da 50 euro. Una tangente: il prezzo del silenzio. Invece di intascare quei mille euro e magari chiederne altri, la sindacalista della Filt-Cgil, Monica Gheorghina Kovaciu, che assiste decine di poverissimi lavoratori dei trasporti, italiani e stranieri, denuncia alla polizia il tentativo di corruzione. E consegna come prova proprio quelle banconote, che da allora sono sotto sequestro.

 

Da questo atto di onestà è nata una grossa indagine giudiziaria che un anno e mezzo dopo, il 23 marzo scorso, ha convinto il tribunale di Milano a ordinare il commissariamento della Brt, l'ex Bartolini, uno dei colossi italiani della logistica e trasporto merci. Un'azienda storica, in forte e continua crescita: dal 2017 al 2021, data dell'ultimo bilancio pubblicato, i ricavi sono saliti da 1,3 a oltre 1,7 miliardi di euro, gli utili annui da 21 a 35 milioni: sommando cinque anni di profitti netti si arriva a oltre 132 milioni.

 

L'istruttoria, che ha unito la Guardia di Finanza, l'Agenzia delle Entrate e gli ispettori dell'Inps, ha messo in luce il lato oscuro del traffico di camioncini e furgoni che attraversano ogni giorno le nostre città. Ora la Brt, che da qualche anno è controllata dal gruppo francese Geopost, è in amministrazione giudiziaria, almeno fino a settembre. La Procura di Milano, nella richiesta approvata dai giudici delle misure di prevenzione, la indica come caso emblematico di «normalizzazione della devianza economica»: una «società leader della logistica», con sede in Foro Buonaparte, nel centro storico di Milano, che esibisce una «struttura formale», rispettosa di tutte le leggi e regolamenti, ma in realtà gestisce «un mondo parallelo» dove «le pratiche illecite di evasione fiscale e sfruttamento dei lavoratori sono promosse e considerate normali».

 

Nel decreto di commissariamento si legge che la Brt «ufficiale» dichiara di avere circa quattromila dipendenti, tutti assunti con regolari contratti. Le indagini hanno però svelato che «quantomeno altri 18 mila» camionisti o facchini «lavorano da anni, a tempo pieno, per le sue molteplici sedi aziendali in tutta Italia». I loro contratti sono intestati a una miriade di società esterne: almeno 2.931 ditte classificate come «fornitori».

 

Alla base del «sistema», come lo definisce il tribunale, ci sono le «società serbatoio»: finte cooperative, spesso trasformate in srl dopo le prime indagini milanesi su altre ditte di trasporti e logistica, che funzionano da «meri contenitori di manodopera». Controllano «un'ingente forza lavoro» (fino a tremila dipendenti ciascuna) e hanno caratteristiche comuni: non pagano l'Iva; sono raggruppate in cordate di società con le stesse sedi e i medesimi professionisti e rappresentanti legali, in diversi casi già condannati per reati fiscali; restano attive per meno di tre anni; prima di chiudere, trasferiscono tutta la manodopera a nuove entità, controllate dagli stessi soggetti. E come amministratori dichiarati, con ruolo di parafulmine legale, spesso utilizzano prestanome: cittadini romeni che non hanno mai vissuto né lavorato in Italia; lombardi nullatenenti. I casi di trasferimento della manodopera da una ditta all'altra, che gli inquirenti definiscono «transumanza dei dipendenti», sono un'enormità: le indagini della Guardia di Finanza di Milano hanno identificato ben 1.956 società coinvolte, per un totale di 26.105 camionisti e facchini.

 

Le «società-serbatoio», organizzate per avere vita breve, gestiscono l'attività illegale: non pagano le tasse, versano contributi previdenziali minimi (solo quanto serve a ritardare le verifiche), non rispettano alcuna norme sulla sicurezza del lavoro, non fanno visite mediche o corsi di formazione, non pagano ferie, giornate di malattia, tredicesime e festività. In caso di incidenti stradali o infortuni su lavoro, la prassi aziendale è che non si deve chiamare l'ambulanza: il ferito o moribondo va portato in ospedale da «persone di fiducia». Quando il debito fiscale diventa troppo alto, le società-serbatoio vengono chiuse, scaricando i problemi legali sui prestanome. Mentre la massa dei dipendenti, per non perdere il lavoro, è costretta a traslocare in una nuova società collegata.

 

Nel girone infernale dei più sfruttati ci sono i «finti padroncini». Circa un terzo dei presunti «fornitori esterni», ovvero 975 società, hanno in realtà un solo dipendente e un unico mezzo: un autista con un furgone, che di fatto lavora solo per la Brt, con tanto di logo aziendale verniciato sul veicolo. «Li chiamano lavoratori ibridi, perché non sono autonomi, non hanno la partita Iva», ha testimoniato la sindacalista della Cgil, aprendo uno squarcio poi confermato e documentato da decine di lavoratori poi interrogati come testimoni. «Risultano dipendenti delle ditte esterne, anche se lavorano da anni a tempo pieno per la Brt, in qualche caso da più di venti. Per essere assunti devono pagare un anticipo, contabilizzato come prestito per l'acquisto del camion, per diverse migliaia di euro, almeno cinquemila, ma non ne diventano proprietari. Quindi devono restituire alla loro ditta, ogni mese, una rata con gli interessi, come trattenuta, per cui non incassano mai lo stipendio netto. Benzina, autostrada, riparazioni, incidenti, multe, infortuni, sono tutti a loro carico. Dipendono totalmente dai capi-sede della Brt, che ha la regia unica e diretta del loro lavoro: sono loro a decidere le spedizioni e a trattare con i destinatari. I rappresentanti delle ditte si limitano a fare da postini e consegnare le buste paga».

 

«Per sopravvivere, per mantenere la famiglia, molti sono costretti ad accettare turni massacranti, rinunciano ai riposi e alle ferie, a trascurare la salute e lavorare anche quando sono malati. E nei periodi di picco, alcuni accettano di farsi pagare a cottimo, cioè non in base alle ore di lavoro, ma al numero di consegne e alla quantità di merce recapitata, come se fossero autonomi. Però restano dipendenti, non possiedono nulla e non hanno alcun potere di decidere quanto e dove lavorare: a stabilire tutto sono i capi-area della Brt».

 

L'indagine continua ad allargarsi e ha già preso di mira i fornitori più ricchi. Un gruppo di società controllate da un certo Antonio Suma, in particolare, è arrivata a fatturare, nel 2021, circa 150 milioni di euro, grazie al lavoro di 2.787 corrieri. Dal 2013 al 2020 lui e la moglie risultano aver trasferito in Svizzera più di 10 milioni di euro, attraverso una loro società di consulenze sul lavoro, che ha un nome beffardo: Volp Service.

 

Per evitare una crisi aziendale i giudici di Milano hanno lasciato in carica il consiglio di amministrazione espresso dalla proprietà, affiancato però da un commissario giudiziario, chiamato a controllare tutta l'attività per un anno, con una prima verifica giudiziaria dopo il primo semestre. L'obiettivo prioritario, indicato dal tribunale, è «salvare i posti di lavoro e regolarizzare tutti i contratti». La Brt ha riconosciuto (e pubblicizzato) che l'amministrazione giudiziaria non ha intralciato l'attività aziendale e non ha causato «alcun ritardo nelle consegne».