La faccia identica al padre, le cure, gli amici, il consenso. Tra la gente, in rapporti stabili con la borghesia e la politica: il boss che incarna Cosa Nostra tra modernità e tradizione

La mafia com’è. Tra la gente. Insinuante, subdola, sfrontata nella sicumera che consolida il mito di un’impunità leggendaria. Forte di un’organizzazione, logoratasi negli anni del delirio stragista dei Novanta, fiaccata ma non al crepuscolo. Indebolita, e molto, ma non vinta. In una società che ancora le si struscia, la cerca, la blandisce, la invoca e che si lascia abbacinare dallo sfavillio del denaro e del potere, troverà sempre un imprenditore disponibile, un professionista accomodante, un politico servile in una ditta di mutua convenienza. Una talpa a gettone e un paesano in debito.

Piegato nel fisico ma fiero nella vanità di un blasone nero di lutto e rosso di sangue innocente, Matteo Messina Denaro incarna perfettamente il modello di una Cosa nostra che si fa largo nella modernità con qualche concessione alla spocchia del lusso senza sudore. Concede al tempo nuovo solo ciò che nutre l’indole. E per il resto obbedisce ai codici, duttile e pragmatica, intenta solo a perpetuare sé stessa, oltre i destini dei singoli. Deposto un capo, sa trovarne un altro. Attinge anche ai vecchi tornati liberi dopo i rigori del 41 bis, punta sui rampolli o si rimette alle ombre, figure sparite dai radar come Giovanni Motisi, da Pagliarelli, quartiere sede dell’omonimo carcere, alle porte di Palermo. Sessantaquattro anni appena compiuti, figlio d’arte, ora in cima alla lista dei ricercati, latitante dal 1998, condannato all’ergastolo, imparentato con una genia di mafio-costruttori che hanno cementificato mezza città.

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Governativa sempre e comunque. Cosa nostra muta ma non cambia mai veramente.

Dicono si sia definitivamente chiusa l’era stragista. Era un ciclo già concluso. Quella stagione era già finita proprio quando la latitanza di Matteo Messina Denaro cominciava. La Cosa nostra della dittatura corleonese, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio a Palermo, dopo Firenze, Roma e Milano, aveva corretto la rotta sulla soglia del 1994, ripiegando sull’orlo della carneficina sfiorata allo stadio Olimpico della capitale. Coltivava, certo, propositi di vendetta e nuovi negoziati al tritolo che accompagnassero il Paese al cambiamento già in corso. Accantonava esplosivo e seminava ancora morte, ma con Totò Riina in carcere, battuto nell’azzardo di un despota allucinato di poter vincere la guerra allo Stato, si era consegnata alla linea della quieta coesistenza interpretata da Bernardo Provenzano.

Lesto, Matteo, da devoto sicario in piena operatività si era prontamente adeguato. Aveva accantonato le fantasie separatiste che pure lo avevano tentato quando Cosa nostra sognava una Lega propria, desistendo quando all’orizzonte era apparsa Forza Italia. I galloni di capo se li era conquistati e per discendenza dinastica, con il padre Francesco, morto in latitanza nel 1998, gli era stato riconosciuto anche il grado formale di vertice della provincia di Trapani.

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Nelle lettere a Provenzano, esprimeva disagio per l’inadeguatezza della nuova classe dirigente, «mancano i rincalzi dei rincalzi», si lamentava per le retate, «arrestano anche le sedie», poi discettava di affari e con devozione si firmava «nipote Alessio». Controllava in casa ogni attività spingendo sulla grande distribuzione, l’alimentare su tutto con Giuseppe Grigoli, i centri commerciali, le strutture turistiche come la Valtur di Carmelo Patti (oggi del del Gruppo Nicolaus, estraneo a queste vicende) e poi le rinnovabili di Vito Nicastri. «I pali», li chiamava con un certo disgusto Riina, deluso dalla metamorfosi del suo ex pupillo, invidioso delle sue capacità nell’economia, per così dire, legale. Matteo era avanti. I legami con gli States li aveva coltivati facendo leva sulla tradizione dei castellammaresi, le alleanze con i narcos le aveva sviluppate legandosi, come già il padre, ai cartelli della ’ndrangheta. La propensione ai viaggi, una certa intraprendenza nella diversificazione degli interessi, reperti archeologici compresi, lo avevano portato in giro per il mondo.

Ma poi, tornava sempre a Castelvetrano, lì dove lo Stato del Dopoguerra, intorno al cadavere del bandito Giuliano, aveva ripreso a danzare il valzer del compromesso. A casa, o non troppo lontano, a Campobello di Mazara, comune satellite, dove girava indisturbato con la propria faccia. Che gli anni e i malanni avevano reso identica a quella del padre o al suo identikit. Nessuno però sembrava volersene accorgere. Nessuno, neanche tra i medici del suo territorio che si prodigavano per assicurargli assistenza, aveva voluto insospettirsi. Non lo aveva fatto neppure l’aspirante sindaco di Campobello, Alfonso Tumbarello, che aveva curato anche il vero Andrea Bonafede, l’alias di Matteo, amico di infanzia e malato come lui.

Re nel proprio territorio, con le mani sulla cassa del welfare parallelo che garantisce consenso, Messina Denaro si era allungato sull’Agrigentino, più prossimo ai limiti della sua satrapia. Gli era preclusa un’egemonia sui palermitani, restii a concedere scettri fuori dai confini della provincia. Gli veniva però in soccorso la famiglia: il matrimonio della sorella Rosalia con Filippo Guttadauro lo aveva portato a spingersi a Bagheria. Dove, vent’anni fa, si era anche stabilito, trovandosi una fidanzata, Maria Mesi, che lavorava nella ditta di prodotti ittici di Carlo Guttadauro, il fratello del cognato. Anche Maria aveva una sorella, Paola, che era la segretaria personale di Michele Aiello, il re Mida della sanità siciliana. Uno spuntato quasi dal nulla. I soldi fatti con i microappalti senza gara delle strade interpoderali concessigli in sinecura dall’assessorato all’Agricoltura li aveva decuplicati investendo su un centro di eccellenza per la radiodiagnostica. Contendeva così il primato delle cure d’avanguardia proprio al centro di Guido Filosto, ovvero La Maddalena, la clinica dov’è stato arrestato Matteo. E qui la storia continua a riavvolgere il nastro di quattro lustri.

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L’attuale procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, che con il collega Paolo Guido ha firmato la cattura di Messina Denaro, era ancora un pm. Inquadrò Aiello e coltivò il sospetto che fosse un fantoccio nelle mani di Provenzano e del suo entourage. E non finì lì, l’indagine svelò l’esistenza di un circuito di talpe che correva a informare l’imprenditore sui movimenti dei Ros a Bagheria per la cattura di Provenzano e le ricerche di Messina Denaro. Si saldò a un’altra indagine che riguardava invece Giuseppe Guttadauro, fratello di Filippo e Carlo. Medico, aveva preso il comando del mandamento di Brancaccio dopo l’arresto dei terribili fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, amici e compari di Matteo. Da Aiello e Guttadauro si arrivò a un altro medico, al presidente della Regione Salvatore Cuffaro che per questi rapporti è stato condannato. Tornato in politica, è tra i plaudenti per il successo dell’Arma dopo la cattura di Messina Denaro. Tutto torna nella Sicilia accomodante.

Come i medici nella biografia di qualunque capomafia. E anche in questo Matteo non fa eccezione. Per assistere il padre ne mise uno a stipendio costringendolo a una vita da latitante con un unico paziente. Da dializzato puntò un centro di cura per impadronirsene. Da ammalato di tumore ha scelto il meglio delle cure che la sanità, privata, può offrire. E di camici ciechi, muti e sordi deve averne incontrati parecchi. Soprattutto dalle sue parti. Del resto la sanità è un comparto che da solo muove più della metà del bilancio isolano, che alimenta appetiti ed è uno snodo di interessi in cui politica, affari e mafia si incontrano. Spesso sotto l’egida della massoneria che a Trapani è onnipresente e costituisce un cemento formidabile. Come la politica. I contatti con i Messina Denaro hanno inseguito il senatore forzista Antonio D’Alì, già sottosegretario all’Interno con delega ai collaboratori, famiglia di possidenti molto in vista, con partecipazioni in attività disparate e una banca di famiglia, la Sicula, poi ceduta alla Commerciale. Condannato per concorso esterno si è consegnato a Opera proprio il 14 dicembre scorso. Nelle sue proprietà aveva lavorato Francesco Messina Denaro e il figlio era subentrato. Nella sua ex banca ha lavorato da preposto anche il fratello di Matteo, Salvatore, che vive non troppo distante dall’ultimo rifugio di Matteo, alias Andrea Bonafede, factotum e gestore di un parco acquatico finito nelle maglie giudiziarie. E ora visitato anche dai Ros alla ricerca di uno dei nascondigli dell’ex imprendibile. Un finale degno di Bad Guy. Per il resto, come scriveva l’Alessio delle lettere a Svetonio, nome in codice di un ex sindaco che lo aveva agganciato per conto dei Servizi: «Ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere».