Otto piccoli pazienti su dieci devono emigrare nei reparti ospedalieri del centro-nord. Ma per le famiglie significa affrontare enormi spese e problemi. E la rete di associazioni che le aiuta è stata messa a dura prova dalla crisi

I bambini non sanno cos’è la morte, alla fine delle loro favole il drago viene sempre sconfitto. Eppure ogni anno per oltre 2mila di loro, il drago irrompe nella vita vera con nomi impronunciabili: leucemia, linfoma, neuroblastoma. Secondo l’Associazione italiana registro tumori, ne sono affetti 1.400 bambini fino ai 14 anni e 900 adolescenti dai 15 ai 19 anni. Una diagnosi di cancro diventa, così, una storia da un finale incerto, perché se è vero che per le leucemie e i linfomi gli avanzamenti della ricerca oggi garantiscono un tasso di sopravvivenza dell’80 per cento, spesso le difficoltà sono lungo un cammino che può snodarsi per centinaia di chilometri.

 

È la cosiddetta mobilità sanitaria, garantita nel nostro Paese a tutela di un diritto costituzionale (art. 32) e ribadita dall’art.24 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza, ma che rende lo stivale una vera e propria corsia d’emergenza. Secondo la Fondazione Gimbe, infatti, nelle regioni del centro-nord emigra l’85,9 per cento dei pazienti sotto i 14 anni. Lo conferma anche l’Istat: nel 2019 nel centro-nord sono stati ricoverati 38.462 su oltre 44mila pazienti provenienti dal meridione. È quello che i tecnici chiamano indice di fuga, cioè la propensione dei pazienti a ricercare un servizio sanitario fuori regione e che economicamente diventa una voce di debito.

 

Cinque anni fa, soltanto sei regioni hanno generato debiti per oltre 300 milioni di euro: in testa Lazio e Campania. Secondo la ricerca Pediatric interregional healthcare mobility di De Curtis, Bortolan, Diliberto e Villani, nel 2019 la mobilità passiva è costata al meridione oltre 90 milioni di euro. Ma i propositi e i piani di rientro regionali non bastano se, come spiega il rapporto Disuguaglianze nella mortalità infantile in Italia a cura di De Curtis, Frova e Simone, il tasso di mortalità neonatale al sud è maggiore del 40 per cento rispetto al nord a causa della carente fornitura di servizi pubblici di prevenzione e assistenza sanitaria.

 

Così, per molte famiglie, la prima risposta a una diagnosi nefasta è una corsa contro il tempo in centri di cura spesso lontani, che richiedono di mettere in stand-by le proprie vite.

 

Come Anna, che in 24 ore ha racchiuso la vita sua in un trolley ed ha lasciato Catanzaro perché la figlia di 5 anni iniziasse un percorso di cura presso il Policlinico San Matteo di Pavia, fiore all’occhiello dell’oncoematologia pediatrica italiana. La nuova vita di Anna e di sua figlia non è solo iniziata con la diagnosi nefasta di leucemia, ma anche con la porta aperta di Casa Mirabello, la struttura dell’associazione Agal, nata 40 anni per assistere i bambini leucemici in cura al San Matteo e le loro famiglie: «Se non avessi trovato Agal, non so cosa avrei fatto. Grazie a loro ho potuto concentrarmi su mia figlia».

 

Dal 2014, anno di inaugurazione della struttura alle porte di Pavia, sono state ospitate 2.500 famiglie, in larga parte dal meridione: «Non può esserci cura senza accoglienza», spiega la presidente Clara Baggi, che nei suoi occhi di nonna ricorda ancora gli anni in cui l’associazione ospitava le famiglie in appartamenti dislocati nella città: «Fu allora che, assieme a mio marito Pietro, abbiamo pensato che Agal avesse bisogno di una struttura. Così, nel 2011 abbiamo visto questa casa diroccata piena di topi e, partecipando a un bando del Comune, siamo riusciti a ristrutturarla e inaugurarla nel 2014».

 

Oggi, a due passi dall’antica residenza di caccia dei Visconti, le dieci camere e gli spazi comuni di Casa Mirabello sono un’oasi di ordine nel caos di vite sconvolte, dove un disegno appeso con la calamita sul frigo o i vapori dei piatti regionali cucinati insieme nella grande cucina comune rubano speranza dove regna la disperazione scandita da anamnesi e referti. Per i genitori, che in una manciata di ore hanno smesso di leggere i libri di fiabe per incomprensibili cartelle cliniche, la vita si tratteggia nei gesti semplici dei loro figli: una risata, un catetere rimosso, una breve corsa in cortile: «Sono i bambini che, non conoscendo né la morte né il rischio, danno a noi la forza», spiega Baggi.

 

Come già sottolineava la dottoressa Francesca Baldo, presidente dell’associazione Respirando, nata per sostenere le famiglie dei bambini medicalmente complessi, per un genitore assistere un bambino malato significa convivere con un continuo senso d’emergenza: si tratta, cioè, di un vero e proprio disturbo da stress-post traumatico. «Da noi festeggiamo quando un bambino toglie un catetere e vediamo la felicità in chi, come Gaspare, è contento perché potrà festeggiare il compleanno con i suoi amici in Sicilia», aggiunge Stefano Lucato, consigliere di Agal.

 

Ma queste case di accoglienza e cura, figlie del terzo settore, aiutano anche a supplire le spese che una famiglia si trova a dover sostenere quando uno dei due genitori – se non entrambi – è costretto a lasciare il lavoro o gli altri figli.

 

Marisa Barracano Fasanelli e suo marito – primario radiologo - hanno vissuto queste difficoltà di persona negli anni Novanta, cercando una cura all’estero: «Mi sono trasferita con mio figlio Emanuele in Minnesota, al Children’s hospital di Minneapolis. Eravamo soli e preoccupati perché, quando la stanza d’ospedale ti costa migliaia di dollari al giorno e devi darli in anticipo, cogli la drammaticità della situazione» spiega.

 

Emanuele morirà molti anni dopo: «Mio figlio si è ammalato che era un bambino delle medie ed è morto che era laureando in Fisica», spiega Marisa, ma il suo lascito è l’Associazione Peter Pan, nata nel cuore di Roma per accogliere le famiglie con i loro bambini in cura presso l’ospedale Bambino Gesù. A fare da spalla alla presidente di Peter Pan c’è Giovanna Lea, che ha perso sua figlia Maura dopo tre anni di sofferenze: «È stata lei che, su un letto d’ospedale, mi ha ricordato quanto fossimo fortunati: nel suo stesso reparto, un bambino da Cagliari era entrato vivo e ne era uscito salma senza aver potuto salutare né il papà né i fratelli né i nonni. Quelle parole dette da mia figlia in preda alle sofferenze mi hanno segnato. In fondo, io e Marisa ereditiamo il lascito dei nostri figli».

 

Davanti al nosocomio pediatrico, Gianna e Marisa hanno visto spesso famiglie barattare la speranza con un panino masticato per strada, il sonno consumato in auto, l’igiene personale affidata alle fontanelle del Gianicolo: «Così, quando ancora non ci credeva nessuno, sono andata alla ricerca di una casa che potesse accogliere anche loro perché fossero vicino ai loro figli». Ispirata dalle case della Fondazione McDonald’s che la ospitarono a Minneapolis, Marisa trova su via della Lungara una vecchia scuola che oggi è la Casa di Peter Pan, prima di due strutture che possono ospitare 30 nuclei familiari e preservare il legame con i loro figli, come da statuto. È una realtà ancora oggi possibile grazie ai volontari e donatori: «Non dimenticherò mai la colletta organizzata dai detenuti del vicino carcere del Regina Coeli nel 2000. Li ringraziai perché loro, privati della libertà, hanno cercato di lenire la prigione dei bambini malati di cancro e delle loro famiglie», ricorda commossa Marisa.

 

Dopo i mesi difficili del lockdown e con la crisi energetica in corso, Casa Mirabello, Casa Peter Pan e altre strutture analoghe affrontano nuove difficoltà: «Il terzo settore è in sofferenza e dopo il Covid abbiamo adempimenti più costosi, dal revisore contabile al caro bollette», spiega Clara Baggi. A centinaia di chilometri, le fa eco Marisa Barracano Fasanelli: «Le spese e le difficoltà non mancano. In fondo il sogno dei nostri bambini e il nostro resta lo stesso: che di case come questa non vi sarà più bisogno un giorno». È il lieto fine su cui da anni lavora la ricerca, ma che richiede l’impegno delle istituzioni affinché per sempre meno famiglie salvare la vita del proprio figlio non costi perdere la propria, lavoro compreso. Perché, oltre le rendicontazioni, i debiti e le donazioni, in fondo tutti, bambini e adulti, sognano lo stesso finale della storia: che il drago possa essere sconfitto, una volta per tutte.