Misteri italiani
La memoria rimossa sul maresciallo Lombardo: il Maigret antimafia liquidato come suicida
Una perizia della famiglia punta a far riaprire il caso della morte in caserma. Il carabiniere che rivendicò nella lettera testamento di avere avuto un ruolo nella cattura di Riina, voleva riportare in Italia Tano Badalamenti detenuto negli Usa. Il figlio: “Fu ucciso per questo”
Pioviggina ma il finestrino della Fiat Tipo di servizio è tirato giù. Un maglione verde, la mano destra sulle gambe stringe la Beretta calibro 9. Sul sedile accanto, un biglietto bianco graziato dal sangue. È scesa la sera su Palermo e sul parcheggio interno della “Bonsignore”, il comando regionale dei carabinieri. L’Italia è a tavola, mentre il primo processo per la morte di Paolo Borsellino è in corso, Totó Riina è in carcere, Giulio Andreotti sta per andare alla sbarra, Gaetano Badalamenti in Italia non verrà. 4 marzo 1995. Dietro ognuno di questi fatti c’è il lavorìo investigativo dell’uomo in quell’auto, a cui un proiettile ha appena trapassato il cranio.
A Terrasini dal maresciallo Antonino Lombardo per avere notizie andavano magistrati, i servizi, il Ros dei carabinieri, nel quale poi entrò. Ma la fama l’ebbe solo per la sicumera di un attacco rivoltogli in diretta tv dieci giorni prima: colluso con la mafia, dissero. Invece era un investigatore che faceva la guerra a Cosa Nostra secondo la vecchia scuola, prima dell’epoca dei pentiti: basso profilo, sapere ogni piccolo affare di contrada, scegliere i contatti, ottenere rispetto sapendo che i boss sono prima uomini con argini, margini e velleità, non scordare mai di essere lo Stato. Non lo dice la famiglia, che ha presentato un esposto alla procura di Palermo per smontare la tesi del suicidio e riaprire le indagini sulla sua morte, ma il giudice Paolo Borsellino: «Quando il maresciallo Lombardo parla di mafia, bisogna ascoltarlo in religioso silenzio». Il figlio Fabio lo ripete in tutte le interviste, non si è mai arreso. «Bisogna partire dallo sparo. Intanto dobbiamo parlare di omicidio, poi vedere come è avvenuto, perché e chi lo ha voluto. Se viene riscritta la storia dell’omicidio Lombardo dobbiamo riscrivere parte della storia di quegli anni». Per lui le prove del «depistaggio» e di «27 anni di menzogne» ora ci sono, contenute in 400 pagine di relazione criminalistica e una nuova perizia grafologica e balistica che L’Espresso ha letto.
È un «omicidio di Stato perché il mafioso non entra e non può portare il cadavere all’interno di una caserma. Quindi è o qualcuno che indossa la divisa o qualcuno aiutato da chi indossa la divisa».
Il proiettile sparato ha «una mera e semplice analogia di classe d’arma» con quella in mano al cadavere, l’ogiva «è praticamente esente da deformazioni plastiche, (..) poco o nulla compatibile con un’ipotesi che prevede un impatto quasi ortogonale contro il tessuto osseo di un cranio umano», si legge nella perizia. E la traiettoria è «anomala»: per giustificarla, il suicida avrebbe dovuto premere il grilletto col pollice. La posizione di braccio e mano destra e alcune loro tracce di sangue non sono riconducibili alla dinamica del gesto suicidario, mentre la seduta lato passeggero pulita, fa ipotizzare una «copertura da oggetto o corpo».
Confermati i dubbi sulla lettera di addio: le piccole tracce rosse «non risultano compatibili con la scena del ritrovamento» per la forma e per la posizione in cui questa è stata fotografata. Infine, firma e calligrafia sono «un esempio di ipotesi di scrittura artificiale», tentativo che riesce male perché mancano «i segni indicativi della personalità» e dunque la lettera «non appartiene alla mano dello scrivente». La relazione cuce insieme le incongruenze. Come l’orario di arrivo in caserma (il maresciallo arriva per vedere il colonnello Domenico Cagnazzo), i piantoni che non lo vedono entrare, una possibile uscita: mancano i filmati delle telecamere. I tabulati hanno le sole chiamate in entrata e ne mancano due. Il colpo «attutito» sentito alle 22.30 dal colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo, insieme ad un collega, è tale forse perché sparato fuori dalla caserma. Erano lì nel cortile, sono i primi a vedere il cadavere, lui non lo riconosce e l’allarme è per «un uomo che sta male». Alle 22.45 entra ed esce un’ambulanza. Lombardo verrà adagiato col maglione sotto la testa in sala briefing, visto da un medico legale e ricomposto. Niente autopsia. La sua borsa scompare. È mistero su un faldone di appunti. Non risulta repertato il telefono e i cinque milioni che nella lettera scrive di avere in tasca. I familiari raccontano di una perquisizione a casa dai modi netti: si cercano documenti.
Il 26 febbraio Lombardo deve partire per la terza missione negli Usa, quella per riportare in Italia Gaetano Badalamenti, in carcere per “Pizza Connection”. «Non sarebbe venuto per diventare testimone di giustizia, ma per confrontarsi con Tommaso Buscetta, per smentirlo in diversi processi, tra cui quello ad Andreotti. Diciamo che il suo arrivo in Italia era pesante», spiega Fabio Lombardo. È lui a ritrovare a casa del nonno una copia della relazione della seconda missione americana del padre (12 dicembre 1994): è più lunga rispetto alla versione consegnata e firmata solo dal collega Mario Obinu, contiene anche i dubbi di un membro della delegazione sull’opportunità di mettere a rischio impianti processuali consolidati. Le 4 audiocassette della conversazione col boss invece sarebbero state distrutte per «cattiva fonia».
Il boss si fida di Lombardo, è «disponibile» se l’obiettivo è distruggere i Corleonesi. «Badalamenti disse: “Vengo in Italia solo se mi viene a prendere Lombardo”. Dice “solo” e quindi per fermare il viaggio in America bisogna fermare Lombardo», racconta Fabio. Il 25 è il giorno nero. Il maresciallo abbraccia suo figlio: «L’importante è che restiamo una famiglia unita perché mi sa che o ci fanno saltare in aria con l’aereo o appena arriviamo in Italia ci fanno fuori. Quando arriveremo qua, ci sarà un inferno giudiziario, dal presidente della Repubblica agli ufficiali delle forze dell’ordine». Invece lo chiamano: non partirà più, per non «esporlo».
A Partinico, in quello stesso momento, il suo confidente, Francesco Brugnaro, viene ucciso e “incaprettato”. Nel pomeriggio, Badalamenti fa sapere che in Italia non verrà più. È successo che il 23 nella puntata di “Tempo Reale”, Michele Santoro si era collegato in diretta con i sindaci di Palermo e Terrasini, Leoluca Orlando e Manlio Mele che accusano: «Pezzi dello Stato stanno dalla parte della mafia». Orlando: «Sto formalmente chiedendo all’autorità giudiziaria di indagare sul comportamento del precedente responsabile della stazione dei Carabinieri». «Chiacchiere» per cui non vennero mai condannati e di cui non seppero mai dare spiegazioni. «Mio padre era convinto che Mele e Orlando parlarono in tv perché seppero di un pentito che lo accusava. Pentito che poi è stato letteralmente disintegrato, una specie di Scarantino, e che le notizie uscivano dalla procura di Palermo», dice Fabio Lombardo.
È Salvatore Palazzolo: Lombardo, diceva, è «vicino» ai D’Anna. In realtà si trattava ancora di confidenti. «Poi spuntarono anche le accuse del pentito Angelo Siino, smontato anche lui durante il processo a mio zio, il tenente Carmelo Canale: lo accusava di avergli passato il famoso dossier Mafia-Appalti, che mio padre non avrebbe mai potuto avere. Infatti poi si seppe che Giovanni Brusca lo ebbe dall’eurodeputato dc Salvo Lima». L’archiviazione della procura del 22 aprile 1998 per istigazione al suicidio, definisce la morte del maresciallo «evento maturato autonomamente e imprevedibilmente» per la catena psicologicamente dura di quei fatti. Ma dell’ultimo colloquio di Lombardo in caserma, Cagnazzo racconta: «Egli ipotizzava uno scontro ad altissimo livello, ordito da menti raffinate e prevaricante la sua stessa azione investigativa, ancorché a questa legato». Le accuse in tv, per il maresciallo erano state solo un «segnale»: lui, le sue fonti e la sua rete informativa erano già stati bruciati.
«Era uno che dava fastidio, nelle sue indagini si parlava sempre di persone di altissimo livello, non si parlava del mafiosetto o del killer», dice il figlio. Tra i casi che seguiva Lombardo c’è anche la morte di Paolo Borsellino. Dopo il programma tv, «forse la chiamata che gli fece più piacere la fece il pentito che gestiva lui, Totó Cancemi», ricorda il figlio. Gli disse: «Marescià, il suo avvocato sarò io. Stia tranquillo. Era il principale pentito in Italia e il principale interlocutore di Cancemi era mio padre, uno che sapeva valutarne l’attendibilità. Un paio di giorni prima di morire, telefonò e promise alla vedova Borsellino che a breve gli avrebbe portato la verità sulla morte di suo marito. E Cancemi la verità la sapeva. Non si sarebbe arrivati a Borsellino uno, due, ter, quater e depistaggi. I miei dubbi che questa morte sia stata accelerata pure da questa strada che stava percorrendo, ci sono».
Se il primo enigma sulla lettera è «la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani» il secondo è quello che definisce il 15 gennaio 1993, la data dell’arresto di Totò Riina, «il giorno più importante della mia vita di carabiniere». È Lombardo a indicare la pista per la cattura, a dare targhe, numeri. Un suo appunto porta la data del 29 luglio 1992: «La latitanza è favorita dalla Noce Ganci-Spina». «La cattura partì davvero dal giorno dopo via D’Amelio, perché mio padre andò dalla vedova Borsellino e le promise l’arresto di Riina per vendicare la morte del giudice. Tutto parte da un comandante di stazione, non dal Ros o da Ultimo». Lombardo ricevette un encomio semplice che infilò in un cassetto. Dice il figlio: «L’ordine di parte dell’Arma e della procura di Palermo è di eliminare dalla memoria la figura del maresciallo Lombardo. Perché?».