L’omicidio Boiocchi e il lutto imposto a migliaia di tifosi a San Siro dicono che lo Stato ha rinunciato a lottare contro i clan della curva. Il neoministro Abodi annuncia provvedimenti, ma la storia recente dice che la tolleranza e qualche Daspo non hanno ottenuto risultati

Con la quinta mafia, gli ultras, funziona come con tutte le mafie. Da un lato, c’è chi vuole trattare il fenomeno come si tratta il crimine organizzato e ritiene insufficienti i Daspo, i divieti di ingresso allo stadio. Dall’altro, ci sono i negazionisti e, soprattutto, i riduzionisti, quelli che guai a confondere il tifo sano con pochi facinorosi.

 

Poi capita che nella periferia ovest di Milano, a Figino, un signore di 69 anni di cui 26 trascorsi in carcere venga abbattuto a colpi di pistola alla vigilia di Inter-Sampdoria. Il modus operandi dell’esecuzione non lascia dubbi sulla professionalità e, molto probabilmente, l’intracciabilità degli assassini.

 

Dal punto di vista penale, l’omicidio di Vittorio Boiocchi, storico capo della curva interista sottoposto a Daspo, è in cima alla lista dei reati. Dal punto di vista sociale, è molto più grave quanto è accaduto nella curva Nord di San Siro appena si è sparsa la notizia dell’agguato. In omaggio al loro vecchio ras, benché ormai mal tollerato, i capitifosi hanno sgomberato manu militari un intero settore dello stadio aggredendo chi pretendeva di rimanere a vedere la partita. Una violenza particolarmente vigliacca perché ha coinvolto genitori picchiati davanti ai figli minorenni. Ma una violenza significativa perché la prima manifestazione del crimine organizzato sta nell’occupazione e nel controllo di un territorio.

 

Il caso Boiocchi quindi ha due facce. Quella poliziesca e processuale, per ora contro ignoti. Il movente c’è già. Boiocchi si vantava dei suoi guadagni al telefono, pur mettendo in conto di essere intercettato. A suo dire, il pizzo su parcheggi e chioschi di panini gli fruttava 80 mila euro al mese, quasi un milione di euro all’anno. Decisamente troppi anche per un capo ultras che non ha voluto, o non ha saputo, riconoscere i rapporti di forza con le altre mafie interessate ai business collaterali di San Siro.

 

Il secondo aspetto è politico e ha già sollecitato l’allarme del neoministro dello sport Andrea Abodi. In un governo che prende a manganellate gli studenti in corteo e che spezza le reni ai rave party, è quanto meno incoerente combattere la quinta mafia con i Daspo o, peggio, con la promessa che gli stadi nuovi cureranno tutti i mali. Non è successo a Torino dove, a dispetto dello sfolgorante Stadium sponsorizzato dal gigante assicurativo Allianz, la gestione delle biglietterie era infiltrata da elementi dei clan calabresi onnipresenti al Nord. Anche il gruppo storico dei Drughi, dopo il misterioso suicidio del capo Raffello “Ciccio” Bucci, è finito nell’area di influenza del clan Mancuso secondo le dichiarazioni di un pentito del vibonese. L’obiettivo era portare la droga dentro l’impianto.

 

Per essere chiari bisogna aggiungere che il problema ultras ha toccato tutti i maggiori club italiani. Poco prima dello scorso Natale è stato arrestato per traffico di stupefacenti Luca Lucci, 41 anni, leader della curva milanista in rapporti di cordialità con l’allora ministero dell’Interno e vicepremier, il cuore rossonero Matteo Salvini, oggi di nuovo vicepremier e titolare delle infrastrutture nel governo di Giorgia Meloni. Ad aprile del 2019, in una zona centrale di Milano, ha rischiato grosso Vincenzo Anghinelli, ultras rossonero e broker della droga, salvo per miracolo dopo quattro colpi di pistola sparati da sicari in moto. Tre anni dopo l’agguato è senza colpevoli.

 

Nella capitale c’è una vasta casistica su entrambi i fronti del derby. Dal lato della Ss Lazio, è durata anni la vicenda degli Irriducibili e del loro capo carismatico Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, assassinato tre anni fa per questioni di droga dopo anni di contestazioni contro il presidente del club, e neosenatore, Claudio Lotito per controllare merchandising e biglietteria. Una volta pacificato il rapporto con il proprietario, finito comunque sotto scorta per le minacce, la Nord dell’Olimpico ha avuto modo di distinguersi per la distribuzione di figurine di Anna Frank in maglia giallorossa nell’ottobre di cinque anni fa.

 

Dal lato dell’As Roma, i padroni della Sud hanno tentato di ricattare Franco Sensi quando l’imprenditore ha rilevato i giallorossi dopo i disastri di Giuseppe Ciarrapico negli anni Novanta. La pagina più nera risale al 3 maggio 2014 quando, prima della finale di Coppa Italia fra Napoli Fiorentina, l’ultras romanista Daniele De Santis ferì a morte il tifoso azzurro Ciro Esposito. A garantire l’ordine pubblico intervenne il capo dei Mastiffs napoletani Gennaro De Tommaso, meglio noto al grande pubblico come Genny ‘a Carogna, immortalato dai fotografi sulla balaustra dell’Olimpico mentre trattava con i tutori dell’ordine sotto gli occhi dell’allora presidente del Consiglio, e tifoso viola, Matteo Renzi.

 

De Tommaso è stato arrestato, processato e assolto per la maglietta “Speziale libero”, dedicata al tifoso del Catania accusato dell’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti nel 2007 prima di un derby con il Palermo. Poi nel 2017 per Genny sono arrivati un altro arresto, stavolta per traffico di droga, e una condanna a vent’anni. In carcere ha iniziato a collaborare con la giustizia e nel 2020 la sua pena è stata ridotta in appello a sette anni.

 

La trattativa di Napoli-Fiorentina del 2014 ricorda un Genoa-Siena del 2012 quando i tifosi della squadra più antica d’Italia obbligarono i calciatori a togliersi la maglietta e l’attaccante Giuseppe Sculli, nipote in linea diretta del boss calabrese Giuseppe “Tiradritto” Morabito, andò sotto la curva di Marassi a placare gli animi con la maglietta addosso, in quanto unico degno di rispetto. Secondo il collaboratore di giustizia Domenico Ficarra, coinvolto nell’inchiesta “Cavalli di razza” insieme a Davidino Flachi, il figlio del boss Pepè, lo jonico Sculli è uno dei nuovi padroni di Milano in buona compagnia con il tirrenico Mommino Piromalli, della famiglia mafiosa di Gioia Tauro.

 

Questo elenco parziale non tiene conto dei rapporti diretti di certe curve con l’ultradestra ma restituisce una panoramica di reati molto ampia e del tutto sovrapponibile a quella di qualunque cosca. C’è la violenza fino all’omicidio, l’estorsione sulle attività commerciali, il traffico di merci falsificate, la distribuzione della droga che gira nelle curve e nei locali eleganti delle città italiane. Del resto, gli ultras non si limitano da tempo a dedicare striscioni ai diffidati. È considerato normale che le curve dedichino cori affettuosi ai carcerati e invochino la loro liberazione.

 

Mentre si puniscono, anche troppo tardivamente, i cori razzisti, sull’esaltazione dei condannati il sistema si gira dall’altra parte. Il motivo? Senza ultras non è vero calcio, come dimostrerebbe il periodo di lockdown in pandemia che, invece, è stata l’ennesima occasione mancata per tirare una linea di demarcazione netta rispetto alla quinta mafia.

 

E dove una volta le società finanziavano sotto banco le trasferte, regalavano biglietti e permettevano di fatto la gestione del merchandising, oggi ci sono gli acronimi inglesi come Slo o supporter link officer, l’ufficiale di collegamento con il tifo organizzato che, come minimizza con l’Espresso uno di loro sotto garanzia di anonimato, aiuta chi non ha i soldi per accompagnare la squadra in trasferta.

 

Ma chi pratica le curve sa che ormai gli amministratori delegati del tifo non si limitano a guidare i cori spalle alla partita ma danno ordini su come si deve vivere il match, quando si deve cantare e che cosa, quando si deve saltare e quando bisogna mettersi a lutto. Chi pensa di avere diritti in quanto spettatore pagante o i poveri steward messi lì per quattro soldi e timorosi persino di recuperare un pallone calciato troppo alto non ha capito come funziona e chi comanda. Per questi ingenui sabato 29 ottobre a San Siro gli ultras interisti hanno tenuto un corso di aggiornamento a pugni e calci. In molti altri stadi sarebbe stato lo stesso.