Un’inchiesta sullo stabilimento Colacem e sull’incidenza dei tumori nei comuni limitrofi riporta alla mente l’incubo di Taranto. A preoccupare sono le emissioni e i rifiuti trattati. Mentre l’azienda si autoassolve: “È tutto a norma”

Emissioni inquinanti, elevata incidenza di patologie tumorali, l’ombra dell’impiego di rifiuti pericolosi. L’apertura d’un fascicolo d’indagine. E il déjà-vu è servito. Lo chiamano eco-mostro. È sempre Puglia, ma non Taranto. Galatina, terzo comune per grandezza della provincia di Lecce. Ventiseimila abitanti e un unico rovello: che la concentrazione di tumori nel distretto sanitario cittadino – 16 comuni classificati dall’Istituto superiore di sanità «area cluster per neoplasie polmonari» – non sia un castigo piombato dal cielo. Ma conseguenza degli scarichi di Colacem, il cementificio del colosso Colacem Spa, società capofila del gruppo Financo, la holding finanziaria delle famiglie Colaiacovo. Sei stabilimenti in Italia, 4 terminal e 3 depositi all’estero. E l’impianto salentino. Dalle dimensioni ciclopiche: quasi 550mila metri quadri, a 2 chilometri dal centro di Galatina e due altri comuni dell’hinterland, Soleto e Sogliano Cavour, con emissioni impattanti su un’altra decina di comuni salentini, per un totale di oltre 140mila abitanti.

 

A queste condizioni, che gli scarichi non intaccassero ambiente e salute è da tempo ipotesi accompagnata da scetticismo. Acuito da una serie di studi. Già nel 2012 Colacem è tra le industrie a maggiore impatto ambientale e sanitario secondo l’Agenzia europea dell’ambiente. Nel 42 per cento dei bambini galatinesi sottoposti a una ricerca dell’Università del Salento è emersa la presenza di micronuclei, indice d’esposizione a inquinanti ambientali. Poi il cluster tumorale secondo lo studio Protos del Cnr, dopo i picchi di neoplasie registrati tra il 2006 e il 2011. Tra i maggiori fattori di rischio figura l’esposizione agli inquinanti industriali.

 

Cercare la pistola fumante, accertando oltre ogni ragionevole dubbio il nesso tra inquinamento e patologie, è però difficile. Specie in assenza d’analisi di enti terzi. Ora in corso, dopo anni d’attesa. Ma a credere che l’esposizione ai fumi c’entri qualcosa sono in tanti.

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Tra loro Salvatore Andreano. «Totò», precisa, relegando le formalità ai soli registri comunali. 80 anni, una vita da impiegato di banca vissuta a 10 chilometri dal cementificio. Per Totò l’unità di misura dell’impatto delle emissioni è pari all’intensità del dolore di una privazione: l’impossibilità di andare in bicicletta. Ha un carcinoma polmonare. «Senza avere mai fumato nella vita», puntualizza. Si racconta con intermezzi scherzosi. «Quando il medico mi chiede come sto, gli rispondo: io bene. Sono i polmoni a non stare tanto bene». Ne parla come fossero cosa separata. E sta tutta lì la cesura con la vita precedente. Oggi orbita tra le associazioni impegnate nella vertenza Colacem, dopo l’impegno in un altro contenzioso, quello sull’oleificio Copersalento, chiuso per emissioni di diossina 8 volte superiori al limite. «Queste industrie non riescono a operare senza emettere fumi tossici. O si cambia produzione, o bisogna chiuderle», dice.

 

Nel 2017, a ridosso della Conferenza dei servizi convocata per il rinnovo dell’Autorizzazione ambientale (Aia) di Colacem, si è costituito il Coordinamento civico ambiente e salute, tra i capofila della vertenza. Alla base, le risultanze scientifiche. Ma anche l’esperienza dei componenti, legata a doppio filo alla fabbrica. Alessandra Caragiuli, sociologa galatinese, parla di una «famiglia sventrata». La sua. La madre, 60 anni, morta nell’arco di due settimane per una leucemia mieloide cronica fulminante. Così il cognato, 45 anni. Poi, il tumore alla vescica del padre e quello all’intestino della zia. Vite ed età differenti. Ma in comune l’orto di famiglia a meno d’un chilometro dal cementificio. «Nessuno ci ha mai detto cosa significasse vivere lì. Lo abbiamo scoperto a nostre spese», spiega. Nel suo quartiere, quando i fumi rendevano l’aria irrespirabile, ricorreva una frase: «Ci sape ce sta brucianu». Chissà che stanno bruciando. È una domanda a cui ora risponderà la magistratura.

 

La Procura di Lecce ha infatti aperto un fascicolo con l’ipotesi di getto pericoloso di cose. Alla base un esposto di 13 associazioni e una mole ingente di documenti, tra cui la Consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) disposta dal Tar nell’ambito dei procedimenti aperti dopo il ricorso presentato dai Comuni di Galatina e Soleto contro l’Aia concessa a Colacem dalla Provincia nel 2018, e modificata nel 2019. I procedimenti oggi sono chiusi, dopo la sopravvenienza d’una nuova Aia nel 2021. In mezzo, però, i risultati della consulenza tecnica disposta per verificare l’idoneità o meno delle misure adottate a tutela di ambiente e salute.

 

La perizia getta più di un’ombra sull’operato dell’industria. E costituisce ora la spina dorsale dell’indagine. Pesa l’assenza di monitoraggi adeguati sulle polveri. Ma è sui rifiuti che si gioca la partita più delicata. Colacem, difatti, effettua regolarmente recupero di materia dai rifiuti. I periti evidenziano però l’assenza di prescrizioni attinenti alla quantità di rifiuto impiegabile nel cementificio. Con il rischio che la lavorazione di quantità indiscriminate non consenta il calcolo degli impatti ambientali. C’è poi il tema dell’errata caratterizzazione di alcuni rifiuti. Nella specie le sabbie esauste, con possibile sprigionamento di sostanze nocive per la salute. Le sabbie, è la tesi dei periti, sono state inquadrate come rifiuto non pericoloso sulla scorta di un’analisi parziale che – scrivono – non ha tenuto conto della probabile esistenza di sostanze pericolose. «Pertanto – si legge - in contrasto con quanto prescritto nell’Aia (…) sono stati accettati anche rifiuti, quali le sabbie esauste, per i quali non era dimostrato che non contenessero sostanze pericolose. L’errata classificazione ha permesso che rifiuti non ammissibili per qualità fossero trattati nella cementeria».

 

Al deposito della Ctu, Colacem ha alzato un muro granitico a difesa del suo operato. Anche mediante una Valutazione d’impatto sanitario (Vis) autoprodotta, che assolve l’azienda da danni ambientali e sanitari. Ritenuta, tuttavia, incompleta dalla Conferenza dei servizi: sarà una Vis di parte pubblica a dire dell’impatto dell’azienda.

 

Il caso, intanto, è approdato in Parlamento. Dopo il dossier recapitato dalle associazioni con richiesta d’audizione alla Commissione ambiente della Camera su Colacem Galatina e i poli di Gubbio e Sesto Campano - sui quali i report contengono dati altrettanto preoccupanti - Nicola Fratoianni ha chiesto lo stop degli impianti sino ai risultati della Vis. Intanto, le città circostanti restano nel limbo. Mentre aleggia lo spettro d’un caso ben presente nell’immaginario collettivo: l’Ilva di Taranto. Non a caso il legale che ha rappresentato le associazioni in Procura è Leonardo La Porta, uno dei volti del processo Ambiente Svenduto. «Non si possono tracciare delle equivalenze, ma lo stesso accadde a Taranto», spiega. «Ci accorgemmo della diffusione di patologie legate all’inquinamento e ci furono degli studi a suffragare queste ipotesi. La gente è preoccupata in Salento come lo era lì. Non si può fare altro che delegare l’incarico alla magistratura. Ora si accerteranno eventuali rischi per ambiente e salute».

 

Aggiornamento dell’8 novembre 2022
La replica di Colacem e la nostra risposta