Il cardinale Becciu, i monsignori, i finanzieri e i faccendieri. Ma nel sistema che ha svuotato le casse vaticane spuntano anche ex ministri ed ex sottosegretari. E per tentare di riparare il buco creato dall’acquisto del palazzo di Londra spunta l’offerta di una società che ha nel board Franco Frattini e Giovanni Castellaneta

Non è solo un processo che riguarda la Santa Sede e un affare finito male intorno a un investimento immobiliare a Londra. È anche e soprattutto la fotografia nitida di una rete di corruzione che ha predato le finanze vaticane e si estende in Italia e a livello internazionale. L’inchiesta più difficile nella Storia dello Stato più piccolo del mondo si è chiusa con l’atto di accusa di 500 pagine redatte dai Promotori di Giustizia Alessandro Diddi, Giampiero Milano e l’aggiunto Gianluca Perrone. Nel processo che inizierà il 27 luglio sono stati rinviati a giudizio il Cardinale Angelo Becciu, monsignor Mauro Carlino, Enrico Crasso, Tommaso Di Ruzza, Cecilia Marogna, Raffaele Mincione, Nicola Squillace, Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi e René Brülhart, per vari reati: truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio, corruzione, estorsione, falso materiale in atto pubblico e quello in scrittura privata e pubblicazione di documenti interni alla Santa Sede coperti dal segreto.


I colletti bianchi in questa inchiesta si mescolano alle talari, il rosso porpora delle vesti cardinalizie diventa il colore di sfondo della storia di un gruppo che tenta la scalata al cielo non passando per gli altari ma per i palazzi, le filiali di banche svizzere, di paradisi fiscali e società off-shore. Una giungla di connessioni con vecchi e nuovi attori della politica nazionale e con una infinita sequela di tornaconti personali, famigliari addirittura.


Il dominus della vicenda, come avevamo raccontato su queste pagine a partire dal settembre scorso, è il cardinale Angelo Becciu, ex potente Sostituto agli affari Generali della Segreteria di Stato, e “allievo predieletto” del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano con papa Ratzinger dal 2006 al 2013.


Altro collaboratore stretto di Bertone è monsignor Alberto Perlasca, braccio destro e delfino di monsignor Gianfranco Piovano, e più volte descritto, con qualche eccessiva semplificazione, come il “pentito” dell’inchiesta. Il comasco Perlasca entra in segreteria di Stato voluto da Bertone ed eredita da Piovano la cosiddetta “terza banca”, un collettore di finanziamenti raccolti a partire dagli anni ’70, sotto il pontificato di Paolo VI, tra pezzi dell’imprenditoria e della finanza milanese, autonomo dallo Ior del Cardinale Marcinkus e dall’Apsa. Una sorta di cassa di emergenza del pontefice, messa a disposizione dei pontefici regnanti, usata come fondo discrezionale per molteplici operazioni fuori dai regolamenti vaticani. L’ammontare dei fondi della “terza banca” era stimato intorno ai 400 milioni di dollari. Soldi che erano stati utilizzati, ad esempio, per risarcire gli azionisti del banco Ambrosiano dopo il crack di Roberto Calvi.

 


Secondo le accuse, anche per questa approfondita conoscenza della finanze vaticane, monsignor Perlasca è stato più volte messo sotto pressione da Becciu durante l’inchiesta. Il cardinale lo ha istruito sugli interrogatori, lo ha terrorizzato psicologicamente ha e cercato di farlo allontanare da Santa Marta. Becciu sosteneva con Perlasca che il processo non si sarebbe mai celebrato e avrebbe fatto intervenire il vescovo di Como, Oscar Cantoni, per convincerlo a ritrattare quanto aveva già consegnato alle memorie dei magistrati. Una cappa di pressione psicologica che Becciu, secondo quanto si legge, avrebbe esteso ad ampi settori della Curia. Secondo gli inquirenti «sarebbe stato in grado di indirizzare» i mezzi di informazione del Vaticano, anche grazie alle deleghe esercitate in precedenza in qualità di Sostituto agli Affari Generali. Prima della riforma dei media vaticani, intratteneva ufficialmente relazioni con la Sala Stampa e con le diverse testate, tra cui TV2000.


Nella ragnatela di intrecci che conducono fuori dalle Mura Leonine, un ruolo centrale spetta a Enrico Crasso, ex Credit Suisse, gestore delle finanze della segreteria di Stato e in rapporti con la Santa Sede dal 1993, per volere sempre di Monsignor Piovano. A lui arriva Perlasca per gestire il primo affare del “metodo Becciu” ovvero l’acquisizione e la rivendita di petrolio dall’imprenditore angolano António Mosquito. Un affare incerto, su cui pendeva la scure dalla magistratura portoghese e anche per questo fatto saltare da Crasso. Qui entra in gioco la figura di Raffaele Mincione che quell’affare africano avrebbe dovuto gestire.

 

L’affare del petrolio angolano non decolla, troppo rischioso, troppe segnalazioni sui due angolani, si rischierebbe l’esposizione pubblica per pochi milioni di euro. Meglio investire sul mattone e Mincione, garbato e affabile, rifila alla Santa Sede gli ex magazzini di Harrods a Londra, appena comprati con i soldi che Enasarco gli ha affidato e che userà per le sue scalate finite male a Banca Carige e a Popolare Milano.


Enrico Crasso non vede di buon occhio Mincione, che entra troppo nelle grazie di monsignor Alberto Perlasca, troppo in confidenza di Becciu. A Londra la sua reputazione è discussa, in Italia lo stesso, tanto che la Gendarmeria vaticana invierà un report in cui sconsiglia di fare affari con lui. Disatteso.

 


Intanto la segreteria di Becciu si riduce da 17 membri a 9. Rimangono i più fidati. Tra questi Fabrizio Tirabassi e monsignor Mauro Carlino, che si muovono più come amministratori delegati di una multinazionale che come dipendenti della Santa Sede. Gli affari per un po’ vanno a gonfie vele perché fino a quando a decidere sono Becciu e i suoi uomini Perlasca, Carlino e Tirabassi, tutto va liscio senza troppi disturbi. Crasso, che nel frattempo si è congedato dal Credit Suisse, crea la So.genel, una società di diritto maltese, che gestirà un pezzo delle finanze della Segreteria di Stato, comprando obbligazioni e facendo investimenti nelle società in cui lo stesso Crasso rivestiva ruoli direttivi: dalle acque minerali al film di Elton John passando per gli occhiali di Lapo Elkann arrivando ai Giochi di Enrico Preziosi. Tutti investimenti in settori lontani anni luce dalle direttive vaticane e in palese conflitto di interesse.


Conflitto che riguarda anche il cardinale e i suoi familiari. C’è il mobilio commissionato alla falegnameria di Francesco Becciu, fratello del porporato, da varie nunziature, con la complicità di monsignor Bruno Musarò, per un giro di affari di oltre 100 mila euro. Ci sono i finanziamenti a pioggia dati dalla Segreteria di Stato e dalla Conferenza Episcopale Italiana della cooperativa Spes di un altro fratello, Antonino. C’è l’acquisto di una casa a Roma per una nipote. Ci sono i soldi versati da António Mosquito a un altro fratello, Mario, per la creazione del progetto “Birra Pollicina”.


Un «sistema marcio» lo definiscono i promotori Diddi e Milano, che fanno notare anche la disinvoltura e la totale impunità con la quale la “banda Becciu” agisce tra le mura vaticane. Un sistema che fa gola anche alle vecchie glorie della politica italiana. Due su tutti: Giancarlo Innocenzi Botti e Franco Frattini, nessuno dei due indagato dalla magistratura vaticana, ma, con ruoli diversi, entrambi coinvolti nella seconda parte della vicenda.

 


Il primo, alla ricerca di un lavoro redditizio, viene convogliato da Raffaele Mincione alla corte di Gianluigi Torzi, broker molisano, su cui pende un ordine di cattura internazionale per truffa, peculato, estorsione e falso, che entrerà nell’affare come risolutore della complessa vicenda dell’affare del palazzo londinese. Torzi crea società di diritto inglese in quantità quasi industriale, una miriade in cui è difficile scorgere un disegno chiaro. Tra queste società c’è la Jci ltd, che ha nel suo board tra gli altri Innocenzi Botti, Frattini e l’ex ambasciatore Giovanni Castellaneta. Società che dovrebbe occuparsi di relazioni internazionali ma che si rivela pronta a preparare una proposta di acquisto sempre per il palazzo di Sloane Avenue a Londra. Infatti Innocenzi Botti, d’accordo col faccendiere Marco Simeon, in una strategia condivisa e progettata col cardinale Becciu - scrivono gli inquirenti - tentano con la medesima cassa di comprare l’immobile londinese dopo che Torzi è stato indagato ed interrogato. Innocenzi Botti viene delegato, con una lettera di Becciu che però già da parecchi mesi non ha più potere decisionale in Segreteria di Stato, a risolvere la questione londinese.

 

Botti agisce insieme a Torzi, Simeon e Castellaneta che mette a disposizione la società Jci di cui è socio per completare l’affare. Il board “istituzionale” viene utilizzato come paravento, secondo gli inquirenti, e Frattini non si fa troppe domande sulle società di Torzi che gli bonificano 30 mila euro per consulenze di geopolitica. Tutta l’operazione, secondo gli inquirenti, sarebbe stata organizzata per riportare in sella Becciu, cioè per farlo apparire agli occhi di Papa Francesco come colui che aveva risolto il problema della perdita finanziaria creata dall’acquisto del palazzo londinese.


Nel frattempo però non solo la magistratura vaticana aveva iniziato la sua opera di indagine. Si sono mossi anche la procura di Roma, quella di Milano e il Tribunale Federale elvetico. Qui è in atto un ulteriore approfondimento investigativo che parte da Enrico Crasso e arriva al pagamento di tangenti agli oligarchi venezuelani, sempre con i soldi della cassa della Segreteria di Stato. Per gli inquirenti svizzeri esisterebbe un piano di riciclaggio di soldi di origine criminale: sotto la lente di ingrandimento ci sono i rapporti di Crasso con Lorenzo Vangelisti e Alessandro Noceti di Valeur e poi gli investimenti finanziari di Becciu per finire con i rapporti tra figure come Frattini, Castellaneta e lo stesso Torzi.

 


Per questo motivo il dibattimento che inizierà il prossimo 27 luglio non sarà un semplice processo vaticano contro il “metodo Becciu” ma costituirà una pietra angolare per la più vasta inchiesta anticorruzione in atto in quattro paesi. I pool investigativi infatti hanno ancora molte domande a cui rispondere. Il ruolo di Cecilia Marogna, la presunta esperta di intelligence, che ha dormito negli appartamenti di Becciu in due occasioni e che ha avuto centinaia di migliaia di euro per non precisate attività, presentata a Becciu da Lorenzo Cesa. Ancora, i rapporti tra un pezzo di ancien régime della politica italiana e Marco Simeon, l’uomo ombra prima di Bertone poi di Becciu. A fare da sfondo c’è anche l’imponente partita sulla sanità, che questa inchiesta ha attraversato per la vendita e la gestione dei crediti sanitari. Un altro “pentito”, oltre a monsignor Perlasca, è Giuseppe Milanese, della Cooperativa Osa, un tempo molto vicino a Papa Francesco (il pontefice scrisse anche la prefazione al libro di poesie del figlio) e diventato testimone chiave di alcuni affari e movimenti economici operati dalla segreteria di Becciu.


Ora i mercanti che erano nel tempio andranno a processo, mentre le indagini proseguono e, anzi, sono appena all’inizio.