Dal distretto della sedia a Udine al merchandising a Venezia. Tra il Friuli e il Veneto è altissimo il numero di imprese e partite Iva asiatiche che chiudono e riaprono lasciando al fisco cartelle non pagate per milioni di euro

La benzina del riciclaggio è il nero e l’economia sommersa cinese ha un suo punto forte nel Triveneto: laboratorio della via della seta del riciclaggio ma anche dell’attecchimento di un’economia irregolare. Ne sanno qualcosa nel distretto friulano della sedia. In questa area industriale del nord-est compresa tra i comuni di Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo che, negli anni Novanta, arricchì il territorio producendo il 30 per cento delle sedute in legno vendute su scala mondiale, tutti sapevano riconoscere nei capannoni anonimi delle prime imprese cinesi della zona il rumore delle pistole che a ritmo continuo sparavano punti sui sedili anche in piena notte. E al mattino era da lì, dai laboratori gestiti dai cinesi fuori da ogni regola contrattuale, che uscivano i pezzi ordinati la sera prima. Una produzione a ciclo continuo che nessun altro imprenditore, mandato a casa il personale a fine giornata, avrebbe potuto garantire al più esigente dei clienti. Inizia così il colpo di grazia a un’economia che era già provata dopo il tracollo dei mercati finanziari del 2008, anche nel florido nord-est.


Un colpo di grazia arrivato dall’Oriente una decina d’anni fa, con l’offerta di contoterzisti disposti a mettere la propria manodopera al servizio delle aziende locali. Matematico il vantaggio, per gli uni e gli altri, visto che a fronte delle quattro ore giornaliere segnate in busta paga, agli operai si imponevano turni impossibili, festivi compresi, e si trattenevano le spese, quelle sì volutamente esose, di vitto e alloggio. Il risultato, nonostante le operazioni di polizia che, da allora, hanno spalancato più di qualche capannone, sta nei dati con cui l’Ufficio studi di Confartigianato Udine, anno dopo anno, certifica l’aumento esponenziale delle aziende del distretto a conduzione cinese: nel 2021, nella filiera legno-mobile, sono ormai una su dieci.


«I cambiamenti demografici fanno parte dell’evoluzione. Oggi sono i cinesi, domani chissà. L’importante è che si rispettino le regole. Noi abbiamo sempre operato alla luce del sole, versando tasse e contributi e garantendo condizioni di sicurezza sul posto di lavoro. Se il mio vicino non lo fa e questo gli consente di pagare il dipendente la metà, allora la concorrenza diventa sleale», dice Giusto Maurig, già presidente del distretto.


Esattamente ciò che un’inchiesta giudiziaria dopo l’altra continua a dimostrare. Erano state le proteste dei sindaci dei comuni del triangolo della sedia, in passato, a spingere ispettorato del lavoro e forze dell’ordine ad accendere i fari sulla Chinatown del legno, con i suoi dormitori, lo sfruttamento della manovalanza e il meccanismo evasivo delle imprese «apri e chiudi», frequente in Friuli così come in Veneto, dal distretto del mobile di Casale di Scodosia, in provincia di Padova, alla zona tessile della Marca trevigiana. Per frodare il Fisco bastano tre anni di vita: nel primo, l’azienda presenta una dichiarazione infedele, con costi inesistenti che consentano di non versare le imposte, nel secondo la omette del tutto e, nel terzo, sparisce insieme al titolare, passando il testimone a una nuova attività e a un altro amministratore, ovviamente collegati al precedente. Un gioco da ragazzi, specie quando si dispone di una rete di prestanome e di riserve di denaro pressoché infiniti. Emblematico il caso di un laboratorio tessile della provincia di Vicenza che dal 1998 al 2021 è riuscito ad aprire e chiudere la partiva Iva per 16 volte.


«La prima venne intestata al reale titolare, le successive, a rotazione, ai suoi dipendenti. E senza neppure volturare mai le utenze», ha detto recentemente alla stampa il generale Bruno Buratti, comandante della Finanza dell’Italia nord-orientale, sottolineando la facilità con cui oggigiorno si riescano a gestire turn over, schermature e migrazione da un codice di attività all’altro con un semplice clic sul computer.

 


Un «fenomeno di massa», così lo ha definito, che fa il paio con il non meno pernicioso business del falso made in Italy. Succede ovunque, ma in una città simbolo come Venezia, dove le pelletterie e i negozi di souvenir a guida cinese si moltiplicano a vista d’occhio, scoprire che tanta merce è taroccata fa ancora più male. «Nel 2020, in Triveneto abbiamo sequestrato su strada 23 milioni di pezzi, tra capi d’abbigliamento, giocattoli e mascherine», ha ricordato il generale Buratti. Poi, però, all’appello delle Entrate, quegli stessi titolari risultano quasi sempre nullatenenti. Nel solo Veneto, i debiti tributari iscritti a ruolo a carico di oltre 8 mila cinesi hanno superato i 2 miliardi di euro, di cui appena il 2,6 per cento finora incassati. Per non dire del nero accumulato con la gestione delle comitive di turisti. Prova ne sia il giro d’affari milionario scoperto nel 2019 indagando su un’agenzia di viaggi cinese che scorrazzava frotte di connazionali dall’isola di Murano a Canal Grande, per invogliarli a spendere e incassare così le provvigioni dai vetrai, dai gondolieri e dai ristoratori a cui li aveva indirizzati. Cifre da capogiro, 31 milioni di euro movimentati tra il 2014 e il 2015, per un totale di circa 4 milioni di sommerso, al ritmo di 1300 visitatori al giorno, a tutto svantaggio dell’economia locale.
Da Pordenone, il presidente di Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, invoca da tempo prudenza.


Tra i primi e i pochi a manifestare riserve sul memorandum firmato dal primo governo Conte con il presidente Xi Jinping nel 2019, aveva giudicato pericoloso l’ingresso della China Merchants Port Holdings nella piattaforma logistica del Porto di Trieste. Le crescenti tensioni tra Usa e Cina consigliarono alle imprese italiane di accordarsi con la Hhla di Amburgo, aprendo una finestra tedesca sull’Adriatico e sbarrando la strada al Dragone. Ma il monito è ancora valido.


«“Belt and Road Initiative” è un disegno strategico di conquista di un Paese che ha già fatto shopping di aziende, anche piccole purché strategiche, e che con la sua espansione, rappresenta una minaccia alla sovranità industriale dell’Occidente», dice Agrusti, che ora guarda con rinnovata apprensione al possibile accordo che la stessa Hhla pare intenzionata a chiudere con il gruppo Cosco, la compagnia di Stato di Pechino impiegata già per l’acquisizione del Pireo. Trattative che invece al momento non impensieriscono chi, all’Autorità portuale di Trieste, segue la bussola del governo Draghi.


«Non abbiamo niente da temere. Oggi a Trieste lavoriamo con tutti, dagli svizzeri agli indonesiani, e a mancare sono proprio i cinesi. Non abbiamo bisogno dei soldi di nessuno e fare analogie con il porto di Atene, cioè con un territorio debole, non è corretto: qui ci sono idee e strategie e chi vuole salire a bordo è il benvenuto. Ma potrà farlo soltanto alle nostre condizioni», afferma il presidente Zeno D’Agostino. Per la via della seta, il Triveneto è uno snodo fondamentale per far arrivare la merce cinese in Europa. Ed è uno snodo anche per l’economia in nero e per il riciclaggio.