La giunta Raggi non ha trovato l'accordo con Airbnb. E così la Capitale, a differenza di Milano e Firenze, non riscuote l'imposta di soggiorno dai clienti della piattaforma online

Tassa di soggiorno? No, grazie. Succede a Roma dove la giunta di Virginia Raggi ancora non è riuscita a trovare un accordo con Airbnb per riscuotere il prelievo a carico dei turisti che arrivano nella capitale prenotando una casa in affitto sulla piattaforma web. E così il Campidoglio vede svanire incassi per milioni di euro. L’inchiesta pubblicata da L’Espresso in edicola domenica 24 novembre e già online su Espresso+ racconta le manovre in Italia della multinazionale degli affitti online e ricostruisce i complicati rapporti tra la società Usa e le autorità italiane, soprattutto sulle questioni fiscali.

A Roma, l’amministrazione comunale ha impiegato più di un anno a definire un provvedimento per regolare il pagamento della tassa di soggiorno da parte dei clienti di Airbnb. Il documento, previsto da una norma varata a marzo del 2018, è stato completato solo 10 giorni fa, ma ancora manca l’accordo definitivo con la società americana. Altre grandi città italiane hanno già provveduto da tempo a regolare la materia.

A Milano per esempio l’intesa ha portato nelle casse dell’amministrazione 3,2 milioni di euro nei primi 5 mesi del 2019. Firenze ha firmato il patto il primo gennaio del 2018: da allora Airbnb da sola pesa per il 16 per cento di tutti i ticket-notte per i turisti: sono quasi 7 milioni di euro nel 2018. Le intese prevedono che la piattaforma riscuota direttamente la tassa per poi versarlo ai municipi. Ma una norma simile non esiste, per esempio, neppure a Venezia.

È invece approdata alla Corte di Giustizia europea un’altra controversia tra Airbnb e il governo di Roma. La vertenza riguarda la cedolare secca sugli affitti a breve termine, introdotta per legge in Italia a ottobre del 2017. La legge prevede che le piattaforme web, come le agenzie immobiliari, debbano agire da sostituti d’imposta, prelevando dai propri incassi quanto dovuto dal padrone di casa. Pubblicata la legge, gli avvocati della società americana ne hanno subito chiesto ai giudici la sospensione, lamentando che la norma avesse già causato «una sensibile diminuzione degli annunci attivi e l’aumento di quelli disattivati». Istanza respinta. Si arriva così alla sentenza di febbraio del 2018: il Tar del Lazio dà ragione all’Agenzia delle Entrate, obbligando la società ad adeguarsi. A settembre, in tempi record, viene pubblicato il responso del Consiglio di Stato, che rimanda la questione alla Corte di giustizia europea.

Dall’autunno del 2017 ad oggi, nonostante le sentenze, Airbnb non ha mai dato seguito alla legge, spiegando che la norma sarebbe «distorsiva della concorrenza». Nel frattempo il mercato degli affitti brevi continua in buona parte a viaggiare in nero.


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