Il traffico di opere vale 9 miliardi di euro nel mondo, e solo nel nostro Paese si registrano 20 mila furti l’anno, 55 al giorno. Tra queste la Natività di Caravaggio e i Van Gogh nella cantina del boss

Quando scatta l’allarme alla Pinacoteca di Bologna è già buio. All’appello manca una preziosa tavoletta di Giusto de’ Menabuoi. Un ladro è entrato con i visitatori ed è uscito con il “Sant’Ambrogio” sotto braccio. L’ha semplicemente staccato dal muro, la telecamera della sala, del resto, puntava altrove. Facile come un gioco.

È l’ultima opera che va ad arricchire la galleria senza pareti né confini dei criminali. I carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale l’hanno inserita tra le dieci più importanti da ricercare. Come i latitanti più pericolosi.

L’Italia è il primo Paese al mondo per numero di furti d’arte: 55 al giorno, quasi 20 mila all’anno. Un traffico illecito che vale, a livello globale, più di 9 miliardi di euro. Colpi con le armi in pugno o all’Arsenio Lupin, con il crimine organizzato spesso a tirar le fila.

È l’autunno del 1969. Nel cuore antico di Palermo alcuni uomini scardinano la serratura dell’oratorio di San Lorenzo. Tagliano con una lama il dipinto, lo arrotolano e lo caricano su un autocarro. Da allora il mistero avvolge una delle 70 opere dell’artista rivoluzionario, il genio della luce. La “Natività” del Caravaggio è in cima alla lista dei capolavori latitanti, il Matteo Messina Denaro dell’arte.

Usata come scendiletto da Totò Riina, nascosta in una stalla, mangiata dai topi, mostrata come un trofeo nei summit della Cupola, distrutta in Irpinia durante il terremoto. Solo dopo quasi cinquant’anni di depistaggi arriva la svolta: «il furto maturò nell’ambiente dei piccoli criminali, ma l’importanza del quadro indusse i massimi vertici di Cosa nostra a rivendicare l’opera» svela il collaboratore di giustizia Gaetano Grado alla Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi.

“U Caravaggio” fu consegnato prima a Stefano Bontate, capo del mandamento “competente”, e poi a Gaetano Badalamenti all’epoca al vertice dell’organizzazione mafiosa. Don Tano, il padrino dei “cento passi” di Cinisi, «ne curò il trasferimento all’estero con la mediazione di un antiquario svizzero. Davanti al quadro si è messo a piangere».

È un racconto preciso quello di Grado che riconosce persino in fotografia l’intermediario di Lugano. È morto da tempo, ma il suo nome è un altro dettaglio prezioso per gli inquirenti. Anche Francesco Marino Mannoia, detto il chimico per la sua bravura nel raffinare eroina, ammette di aver fatto parte della batteria di ladri e ritratta la sua precedente dichiarazione: non l’ha bruciata.

Oggi, scrive la Commissione, «si può ritenere, ed è un’acquisizione fondamentale, che l’opera non sia andata perduta». La tela, entrata nella Top Ten Art crimes stilata dell’Fbi, ha un valore di 20 milioni di dollari, ma per lo storico dell’arte Claudio Strinati: «è comunque difficile stabilire un prezzo sul mercato legale, essendo invendibile in quanto rubata».

La banalità del potere mafioso, capace di trattare un capolavoro d’arte come una cassetta di sigarette di contrabbando o una partita di droga. Tagliata in quattro parti sarebbe stata trasferita in Svizzera, smistata e venduta sul mercato clandestino. La bellezza sottratta e la mafia che lucra. «Con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia», scrive in un pizzino Matteo Messina Denaro. Pochi rischi, massimo guadagno, nessuna tracciabilità, come per i Vincent Van Gogh trafugati dal museo di Amsterdam e ritrovati a casa del ras del narcotraffico Raffaele Imperiale. Li conservava in cantina, dietro agli scaffali. L’arte non l’amava affatto, era solo riciclaggio. Valevano un centinaio di milioni.


Opere in ostaggio che diventano merce di scambio, anche per ricattare lo Stato. Felice Maniero ha rubato persino la mandibola di Sant’Antonio pur di far liberare il cugino. Il boss della mala del Brenta è stato così il primo sospettato quando è sparita la “Madonna dell’Orto” di Giovanni Bellini. L’impalcatura della facciata della chiesa in restauro a favorire l’ingresso, l’allarme fuori uso e la tovaglia di lino dell’altare buona per avvolgere la tela e non farla rovinare. Era il 1993, gli anni delle stragi di mafia e delle bombe al patrimonio culturale. Il fascicolo è ancora aperto e il dipinto resta ai vertici delle opere da ritrovare.

L’immancabile ponteggio viene utilizzato anche per entrare nella chiesa di Santa Maria in Ara Coeli a Roma. Scompare il Bambinello insieme all’oro e agli ex voto dei fedeli. Scolpito nel legno di un ulivo dell’orto di Getsemani e approdato, secondo la leggenda, sulle sponde laziali scampando a un naufragio, è tra gli oggetti sacri più venerati. «Ha un grande valore votivo ed è troppo noto per essere venduto» chiarisce Strinati.

Una ferita profonda che fa muovere persino i detenuti delle carceri romane. Gli investigatori scoprono però un’insolita commessa: la richiesta di fare una copia della statuetta pochi mesi prima del furto. Volano a Buenos Aires e risalgono nel nord dell’Argentina alla ricerca della reliquia perduta. Credono che lì non ci sia una copia, ma l’originale. Lo scultore che l’ha realizzata la riconosce: è la sua. In troppi sapevano della visita degli italiani e il sospetto rimane.

Chiese spogliate in tutta calma, catalogo alla mano. Negli anni Novanta tra le morbide colline del Monferrato sparisce la “Madonna del Rosario” del Moncalvo custodita in una sacrestia. È tra le dieci più ricercate. Come la “Madonna col bambino” del Pinturicchio trafugata da un’abitazione privata di Perugia, l’olio su tela che immortala il “Ritratto di chierico sorridente” di Gherardo delle Notti, preso in una calda notte di luglio a Torrita di Siena, e il “San Simone Stock” di Alessandro Tiarini rubato dalla Pinacoteca di Bologna.

Sono i capolavori finiti in un buco nero. Un filo fatto scendere dal lucernario, un gancio e via. Il “Ritratto di donna” di Gustav Klimt scompare dalla Galleria d’arte Ricci Oddi di Piacenza. I custodi non se ne accorgono e lanciano l’allarme solo il giorno dopo. Immortala una fanciulla dai lineamenti delicati e nasconde un mistero. A scoprirlo nel 1996, un anno prima del furto, è la liceale Claudia Maga. Con la carta lucida trova un ritratto della stessa modella dai toni invernali coperto poi dalla versione primaverile. Quello che i critici d’arte di tutto il mondo davano per scomparso, riappare e infine sparisce per sempre. Pochi anni fa il ritrovamento di tracce di Dna sulla cornice e una testimonianza hanno portato a indagare su una pista esoterica: sarebbe finito nelle mani di una setta satanica, utilizzato per un rito in un cimitero e chiuso nella bara di una bambina morta. Per altri è stato distrutto o ceduto a trafficanti stranieri in cambio di cocaina e diamanti.

Finito oltre confine, forse ancora una volta in Svizzera, come l’“Ecce homo”, un dipinto dal rivoluzionario apporto espressivo di Antonello da Messina. Rubato nel 1974 dal Museo Broletto di Novara insieme ad altre opere per un valore 300 milioni di lire. Della pinacoteca fino a qualche anno prima se ne occupava il cavalier Fumagalli, mutilato, ex fornaio, animato dall’amore per l’arte e non dagli studi che si erano limitati alle elementari. Poi si cercò di porre rimedio con un concorso per trovare un direttore. Fu bandito, ma mai concluso. L’Ecce homo, emblema dell’italica disattenzione per i propri beni culturali. Assicurato dal Comune per una cifra irrisoria per non pesare sul bilancio, senza impianto d’allarme perché costava troppo.

La banca dati dei carabinieri contiene oltre un milione di oggetti da ritrovare. L’impegno però si scontra con i criminali che sanno di correre pochi rischi a fronte di enormi guadagni. Il principale strumento normativo è infatti il Codice dei beni culturali, meno incisivo di quello penale. In ballo c’era un disegno di legge, approvato già alla Camera, ma la legislatura è terminata. E intanto il museo del crimine continua ad arricchirsi, rubandoci memoria e cultura.