L'aumento dell'occupazione registrato dalle statistiche è merito dei posti temporanei. E a crescere di più sono i rapporti di lavoro brevi e brevissimi, Mentre il tempo indeterminato resta una chimera

Negli ultimi anni i posti di lavoro in Italia sono tornati a crescere e gli italiani che hanno un impiego sono tornati quasi a dov’erano prima della crisi economica: una buona notizia, ma che racconta solo una parte della storia.

I posti si contano, è naturale, ma a volerli pesare il risultato rassicura molto meno: oltre che di quantità il lavoro è anche una questione di qualità. Secondo le ultime rilevazioni dell’agenzia europea di statistica, infatti, non solo i dipendenti con un contratto a tempo determinato hanno raggiunto un nuovo massimo storico, ma la crescita maggiore riguardo proprio i contratti di durata minore - che si rinnovano da quattro a sei mesi per volta.

Il numero complessivo di lavoratori con contratti più duraturi, per parte sua, non sembra invece essere cambiato gran che da molto tempo a questa parte, allargando ancora la frattura anche all’interno di questo stesso gruppo.

L’instabilità aumenta dunque anche fra chi era già instabile di suo, rendendo sempre più difficile pianificare il futuro al di là dell’immediato domani, per non parlare di mettere su famiglia o avere dei figli. Lo vediamo in particolare nella seconda metà dello scorso anno, quando i dipendenti con contratti brevi sono balzati in pochi mesi da 530 a 860mila persone. Tanto che nel complesso, ricordano gli ultimi dati Istat, tutti - non un’iperbole, letteralmente tutti - i centinaia di migliaia di nuovi occupati del 2017 sono proprio a termine, mentre gli indeterminati addirittura calano leggermente.

Al di là del breve termine questo tipo di aumento non può essere certamente attribuito all’azione di un solo governo o di una specifica forza politica, perché - con qualche saliscendi - va avanti nella stessa direzione da decenni e sotto esecutivi di ogni colore politico. Resta però che il Jobs Act era stato approvato proprio per far calare il ricorso ai contratti a termine, e dunque ridurre la disuguaglianza fra dipendenti a tempo indeterminato e non. Eppure è evidente che le cose non stanno andando così, anzi proprio al contrario.



Entrando nel dettaglio, troviamo che al terzo trimestre 2017 i lavoratori con un contratto da quattro a sei mesi di durata sono nettamente il gruppo più ampio e composto da circa 850mila persone. Li seguono quelli della categoria subito successiva, per cui il lavoro si rinnova fino a un anno alla volta, preceduti invece da coloro che hanno un orizzonte breve: da uno a tre mesi.

Troviamo, poi, anche diverse decine di migliaia di persone per le quali il lavoro dura meno di un mese alla volta - caso speculare rispetto al gruppo di dimensione simile in cui si parla lo stesso di lavoro a termine, certo, ma per almeno tre anni i dipendenti non hanno di che preoccuparsi.



In Italia il ricorso al lavoro a termine è cresciuto in fretta negli ultimi decenni, ma questo non significa per forza che siamo la nazione in cui gli occupati a tempo determinato sono i più diffusi. Fra le grandi il primato appartiene di gran lunga alla Spagna, in cui all’ultima rilevazione di Eurostat erano il 27,5 per cento del totale dei dipendenti: dieci punti sopra la Francia, in effetti, con l’Italia al 16,3 per cento, la Germania al 12,9 e il Regno Unito fra quelle in cui invece il fenomeno appare raro, a poco meno del 6.

Un cambiamento radicale, per il nostro paese, considerato che vent’anni fa i nostri numeri erano molto simili proprio a quelli del Regno Unito - fermo restando che allora la disoccupazione giovanile era molto più elevata rispetto agli anni successivi, quando sono state introdotte forme di lavoro più flessibili.

Secondo Istat, per esempio, proprio nel 1998 la disoccupazione dei 15-24enni era intorno al 29 per cento, e intorno a quel valore fluttuava almeno dagli anni ‘80. Eppure prima della crisi economica, nel 2007, la disoccupazione giovanile era arrivata a un minimo storico al 20,4 per cento – grazie in particolare alla crescita del lavoro femminile. Esistono motivi per ritenere che la diffusione del lavoro a termine abbia consentito di lavorare a persone a lungo rimaste escluse: lavoratori e lavoratrici che spesso hanno più difficoltà a trovare un impiego come giovani e donne.

Ma questo ha avuto un prezzo, ovvero la progressiva, crescente spaccatura del lavoro italiano fra chi godeva di tutele e diritti e chi invece si trovava in condizioni sempre più difficili. Le tante riforme delle leggi che regolano il lavoro hanno colpito soltanto questi ultimi lasciando immuni i primi. Il peso della flessibilità, sempre più gravoso, è ricaduto sempre e solo sui giovani, mentre chi era al sicuro ha conservato tutto. Fra gli uni e gli altri oggi il divario appare più ampio che mai.

Poiché parliamo di quasi tre milioni di persone in tutto, per capire chi sono raccontarle come se fossero tutte uguali aiuta solo fino a un certo punto. Scandagliando fra i dati, in effetti, troviamo almeno tre gruppi fra loro assai diversi. Il principale, quanto ad ampiezza, è composto da giovani fino a 35 anni di media scolarizzazione – che cioè hanno studiato fino al diploma.

In quasi tutti i segmenti di età e istruzione il numero di lavoratori supera quello delle lavoratrici, ma con un’eccezione significativa: troviamo molte laureate fra 25 e 44 anni che lavorano a termine, mentre fra i maschi con lo stesso livello di istruzione questo avviene molto di rado, e a maggior ragione superati i 35 anni.

L’ultimo gruppo è invece composto da persone più anziane – superano spesso i 50 anni –, e che in diversi casi hanno studiato fino a ottenere la licenza media. Si tratta in effetti di circa 200mila persone in tutto, e dunque di un numero senz’altro inferiore a quello dei giovani, ma tutto sommato per nulla trascurabile


Certo l’incidenza di lavoratori a termine fra i giovani negli ultimi vent’anni è cresciuta moltissimo, tanto che rispetto al 1998 è triplicata sia per i 15-24enni (dal 20 al 66 per cento) che per i 25-34enni (dal 9 al 27 per cento del totale dei dipendenti). Questo però non vuol dire che il lavoro a termine sia solo una questione da ragazzi, e anzi man mano che passa il tempo esso interessa anche età che ne erano rimaste in buona parte immuni, a partire dai 35-44enni e su fino agli over 50.

Secondo Istat, d’altronde, fra i 45-54enni il numero di chi perso il lavoro dopo la crisi è rimasto tutto sommato limitato, e dunque sembra plausibile che si tratti più spesso di persone che avanzando con gli anni non hanno trovato un posto stabile, invece che di un cambio di posizione verso il basso. In mancanza di analisi più dettagliate però al momento è difficile dirlo con certezza.



Resta dunque che l’aumento del lavoro a termine per gli anziani appare contenuto, rispetto ai giovani italiani – che comunque la si voglia girare restano da decenni le persone più in difficoltà.