Celle sature, carenza di medici, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci in meno di cinque mesi si sono già registrati 31 decessi. La polizia penitenziaria non riesce a impedire queste morti. E la Procura di Roma indaga per istigazione al suicidio

Carmelo Mortari aveva 58 anni. Lo hanno trovato in una pozza di sangue nella sua cella di Rebibbia, reparto G9, lo scorso 25 marzo. Si è tagliato la gola ed è morto lentamente, dissanguato. Soffriva di depressione, ma nessuno se n’era accorto. Il giorno dopo a qualche chilometro di distanza Vehbija Hrustic, 30 anni, si è impiccato alla grata del bagno di Regina Coeli, dilaniato dal dolore. Gli avevano appena detto che sua figlia era morta. Sapevano che era sconvolto, ma non sono riusciti a fermarlo.

Michele Daniele di anni ne aveva 41 ed era “dipendente dall’alcol”, come recita la sua cartella clinica. Secondo lo psichiatra che lo ha visitato, però, “non correva rischi suicidari”. Una settimana dopo si è ucciso nel bagno della sua cella di San Vittore impiccandosi con la cintura dell’accappatoio.

In meno di cinque mesi, dall’inizio dell’anno a oggi, nelle carceri italiane sono già registrati 31 decessi fra cui 24 suicidi. Una media di cinque morti al mese. A febbraio, in particolare, si sono contati quattro suicidi in un solo giorno. Nell’anno 2016, in totale, erano centoquindici. Una strage inarrestabile e silenziosa che sembra essere la diretta conseguenza dello stato in cui versano le nostre prigioni, riprecipitate in un baratro allarmante. Il decreto “svuota carceri” voluto nel 2014 dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, infatti, ha avuto un effetto positivo ma molto breve: oggi le celle sono tornate a riempirsi a ritmo vertiginoso e contano un totale di 56.289 detenuti per 50.211 posti a disposizione, secondo gli ultimi dati disponibili del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Tanto che di recente l’Italia - ancora una volta – è stata bacchettata dal Consiglio d’Europa. Un’emergenza fotografata anche dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sullo stato di detenzione in Italia, che fa luce soprattutto sull’inquietante ritorno del sovraffollamento: secondo l’osservatorio, la popolazione carceraria è aumentata di 2mila unità soltanto negli ultimi quattro mesi.



Però, oltre le celle sature, sono molte tante le piaghe che non accennano a guarire: la carenza di medici dietro le sbarre, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - le strutture che dovrebbero accogliere i detenuti con problemi psichiatrici – sono troppo poche e troppo piene. Quindi i detenuti con patologie psichiche sono “curati” nelle celle ricorrendo a un massiccio uso di sedativi con conseguenze a volte letali. Mentre i poliziotti incaricati di sorvegliarli fanno quello che possono, ma sono troppo pochi. Capita che per un intero piano ci sia un solo agente. E’ così diventa una corsa contro il tempo. Che spesso si perde.


GLI MUORE LA FIGLIA, SI UCCIDE IN CELLA
Sono bastati 45 minuti perché Vehbija Hrustic, detenuto di 30 anni, si infilasse al collo un cappio ricavato da un lenzuolo e si appendesse alle grate del bagno, a Regina Coeli. Era in carcere dallo scorso agosto in attesa di giudizio, ed era incensurato. Aveva una figlia, Iana, un anno appena, che soffriva di una grave patologia cardiaca congenita. Il giorno in cui sua figlia è morta all’ospedale Bambin Gesù, il 14 marzo scorso, Vehbja Hrustic lo ha saputo dallo psicologo del carcere. Raccontano che si è piegato in due dal dolore. Gli hanno permesso di andare al funerale, e da allora non ha più parlato. Si è chiuso in un silenzio ostinato e premonitore. Sapevano della sua condizione gli agenti della penitenziaria, la direzione carceraria, i magistrati di sorveglianza. Eppure nonostante l’altissimo rischio suicidario Hrustic non era sottoposto a un controllo di sorveglianza a vista.

“Il detenuto è totalmente abbandonato a se stesso, demotivato dalla prematura scomparsa della figlia: tale drammatico evento potrebbe portarlo a commettere un gesto estremo”, si legge nell’istanza di scarcerazione datata 17 marzo che il legale del 30enne, Michela Renzi, aveva presentato ai giudici per chiedere che gli fossero concessi quantomeno i domiciliari. Per quindici giorni il legale si è presentata davanti al magistrato del Tribunale di sorveglianza per avvertire che la situazione stava precipitando. Una corsa contro il tempo, rimasta inascoltata.


Perché il carcere, irremovibile, continuava a sostenere la sua versione: “La terapia farmacologica sta funzionando”. Gli psicofarmaci che gli facevano ingoiare più volte al giorno però non sono evidentemente serviti a nulla.“Me ne vado dalla piccola Iana”, è stata l’ultima frase che l’avvocato Renzi gli ha sentito sussurrare. E così Vehbja aspettato che calasse la notte e si è ammazzato.

Oggi sul suo decesso è stata aperta un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero romano Laura Condemi. L’accusa è pesantissima: istigazione al suicidio.
“Non doveva trovarsi un carcere –spiega l’avvocato Renzi –avrebbe dovuto essere seguito in un percorso psicologico costante che potesse permettergli di superare un momento così tragico, che avrebbe annientato qualsiasi essere umano. A maggior ragione un detenuto costretto a vivere dietro le sbarre”.
“Si trattava di un uomo fortemente a rischio – le fa eco il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia – sia perché incensurato, e dunque non abituato alla vita nel carcere, sia perché prostrato da un lutto devastante, come può essere la morte di una figlia”.
Ma il dato di fatto è che in carcere mancano operatori sanitari specializzati: psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Secondo quanto prevede l’ordinamento giudiziario, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di “Osservazione psichiatrica” per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario. Il più delle volte però – come confermano i sopralluoghi dei vari garanti dei diritti delle persone private della libertà – questo si traduce in “celle lisce”, prive di qualsiasi tipo di mobilio, dove sono presenti letti di contenzione con lacci di cuoio e dove vengono immobilizzati i detenuti in preda a crisi psichiatriche. A San Vittore – nonostante l’annunciata chiusura - è ancora presente la cella numero 5, utilizzata come cella di contenzione per detenuti definiti “problematici”.

SUICIDA A 22 ANNI
Problematico era anche Valerio Guerrieri, 22 anni, affetto da “personalità borderline” e dichiarato da una perizia psichiatrica “incline al suicidio”. Arrestato lo scorso gennaio per resistenza a pubblico ufficiale e reati minori, era stato portato alla Rems di Ceccano, nel Frusinate, per ben due volte. Ma per ben due volte si era allontanato. A febbraio lo avevano trasferito quindi a Regina Coeli, terzo piano, seconda sezione. I giudici avevano già stabilito la sua incompatibilità con il carcere, per via del suo disagio psichico, e ne avevano predisposto il trasferimento alla Rems di Subiaco, ritenuta più idonea ad accoglierlo. La struttura però era piena e così Lorenzo è rimasto in carcere in attesa che si liberasse un posto. Nessuno – a parte la sua famiglia - si era evidentemente reso conto dell’abisso di disperazione nel quale il 22enne stava precipitando giorno dopo giorno. Il pomeriggio del 24 febbraio Valerio aspetta che il suo compagno di cella si addormenti. Quindi va in bagno, fabbrica una sorta di cappio con un lenzuolo e si impicca alle grate. E’ lo stesso bagno dove ha trovato la morte Vehbja Hrustic, nello stesso identico modo.
“Non doveva trovarsi in carcere, quel suicidio si poteva evitare”, dicono oggi dall’Osservatorio Antigone. “Si tratta di una sezione che conta 170 detenuti e un solo agente incaricato di sorvegliarli su quattro piani”, si sono difesi i sindacati di polizia penitenziaria.
Una tragica vicenda, questa, che accende l’attenzione sulla situazione dei Rems, le strutture che dopo la chiusura degli Opg dovrebbero accogliere i detenuti afflitti da gravi patologie psichiatriche e socialmente pericolosi e indirizzarli verso percorsi riabilitativi. In tutta Italia sono attualmente 28 per un totale di 624 posti disponibili. E sono quasi sempre piene.
Sul caso di Valerio Guerrieri la Procura di Roma ha ora aperto un’inchiesta per omicidio colposo. “Lo hanno imbottito di psicofarmaci”, denuncia oggi la madre attraverso il suo legale Claudia Serafini.

OVERDOSE DA PSICOFARMACI
L’abuso di psicofarmaci in carcere, infatti, come evidenziato anche da un’inchiesta dell’Espresso, è un problema che sta sfuggendo al controllo dei operatori giudiziari e dei medici che prestano servizio negli istituti di pena. Secondo recenti stime delle associazioni a tutela dei detenuti, quasi il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci o potenti sedativi che inibiscono il normale funzionamento psichico. Sono farmaci che provocano sbalzi di umore difficili da gestire, soprattutto nelle persone che hanno un passato di tossicodipendenza. Senza contare il fatto che le benzodiazepine – i sedativi più comunemente usati anche da detenuti perfettamente sani e non affetti da patologie mentali – provocano astinenza già dopo 15 giorni di assunzione. Gli psicofarmaci diventano infatti l’unica “anestesia” a disposizione dei prigionieri per riuscire a sopportare condizioni disumane e carcerazioni preventive. E così lo spaccio di medicinali nelle celle e l’uso smodato di sedativi continuano a moltiplicarsi. Con conseguenze spesso tragiche, come dimostrano recentissimi fatti di cronaca. Nel carcere di Perugia lo scorso novembre uno “speedball” di cocaina, ammoniaca e medicinali ha quasi ucciso un detenuto magrebino. Mentre lo scorso 4 aprile un potente mix di psicofarmaci e droga è stato fatale a un detenuto 33enne rinchiuso nel penitenziario di Rimini.

E poi c’è la vicenda di Andrea Cesar, 36 anni, detenuto in attesa di giudizio, trovato cadavere nella sua cella al secondo piano del carcere di Trieste la notte nel 27 aprile. Secondo gli inquirenti che stanno ancora indagando, Cesar sarebbe stato stroncato da un massiccio cocktail di psicofarmaci.

Parallelamente all’inchiesta aperta in Procura, la direzione dell’istituto di pena ha aperto un’indagine interna. “Lo scambio di farmaci all’interno del penitenziario non è controllabile – ha ammesso il direttore del carcere triestino Silvia Della Bella – può capitare che qualche recluso riesca ad occultare i farmaci eludendo la sorveglianza per poi assumerli quando e come vogliono”.

La notte in cui è morto il 36enne – ha spiegato il segretario provinciale della Uil Penitenziari Alessandro Penna – c’erano di turno soltanto due agenti. Uno dei due era stato mandato in ospedale per piantonare un detenuto. L’altro era rimasto a controllare un intero carcere. Da solo.