“L’Espresso” ha seguito e fotografato per la prima volta il lavoro delle guardie elvetiche di confine. Sulle strade. Nelle stazioni. Ai valichi remoti. E nelle sale operative. Ecco come i vicini respingono i profughi verso l’Italia

L’ufficiale indica una pietra erosa dal vento: «Segna il confine», mostra: «Sono passati anche da qui. Da questa vecchia pista del contrabbando». Sta tramontando il sole sulle colline sopra Chiasso e sui 782 chilometri di frontiera che separano l’Italia dalla Svizzera neutrale, diventata ora Stato ponte per decine di migliaia di profughi. Persone che dopo essere sbarcate in Italia cercano un futuro attraverso queste strade. Sono per loro una via verso Nord, verso la Germania, la Svezia, verso le città dove hanno familiari o conoscenti. Le impronte digitali di centinaia di eritrei, somali, nigeriani, nordafricani, o adolescenti del Gambia - ne incrociamo tre, scappati insieme, hanno soltanto 14 anni, sono soli – vengono prese, immagazzinate. Le loro richieste accolte o respinte, ogni giorno, dall’alba alla notte, a pochi passi dal confine.

Perché la Svizzera ha messo in campo un dispositivo di forza imponente per “proteggere” la sicurezza dei propri confini. Sono oltre duemila le guardie di frontiera. Trecento in Ticino. Quasi tutti i settanta treni che passano quotidianamente da Chiasso vengono setacciati dagli agenti in stazione. Sui binari, i “neri” vengono fermati. Controllati. Se sono «clandestini», come li definiscono le guardie, vengono accompagnati nell’ex magazzino rinominato “Centro Forte Migrazione”. Sono controllati i convogli. Sono controllate a campione le strade, gli agenti spostano i posti di blocco, fermano le macchine. In quindici minuti, alle otto della sera, passano una Bentley, una Porsche, Mercedes, Fiat, una Opel scassata. Quest’ultima viene fermata, c’è un ambulante alla guida.

Di notte, non ci sono solo le pattuglie. A sorvolare il cielo, a cercare con gli infrarossi le tracce di calore lasciate da persone o animali, è un drone militare. Due volte a notte s’alza in volo da una base dell’esercito a Locarno. Nella Svizzera neutrale, l’esercito è stato schierato a pattugliare i confini. A intercettare ladri d’appartamento o di grandi magazzini nascosti nei parcheggi, a seguire bande di rapinatori. E a fermare «i migranti illegali», ripetono qui. Il drone è teleguidato da militari seguendo le indicazioni degli agenti civili di frontiera, riuniti in diretta dalla sede operativa che si trova in località “Paradiso”.

Le guardie dirigono il drone lungo la frontiera, nel cielo dei paesi che corrono su quella striscia a ridosso dell’Italia. I cittadini segnalano, loro spediscono il drone. Proprio stanotte chiama una donna. Dice di aver «notato persone di colore camminare lungo la strada». La telefonata attiva il drone, che rintraccia il gruppo. Ma è un falso allarme. Un’altra squadra ferma invece sei eritrei. Sono irregolari e per questo vengono portati alla stazione di controllo. Altre macchie di calore, altra verifica del drone. Stavolta si tratta di animali.

L’economia del confine, in questo frammento d’Europa, si è fatta economia del sospetto. La frontiera è un business da sempre: piccole rapine, droga, contrabbando. Ora anche di persone. Dei 22 valichi attraversabili in auto, sedici non sono sorvegliati sempre. I passeur ci lucrano, facendosi pagare centinaia di euro a passaggio: nei primi sei mesi del 2016 ne sono stati fermati 128. Undici erano italiani.

A quest’economia di sottobosco ora si è aggiunto il business della paura: i giornali che parlano di “invasione”, le tv che inquadrano gli sbarchi in Sicilia come “minacce”. Le scene di Ventimiglia. Le proteste a Como. Così, il drone svizzero, che ha un’autonomia di 100 chilometri quadrati, non basta più, reclamano gli agenti: dal 2019 ne avranno uno migliore. Sigla: Hermes 900 Hfe. Vola per 36 ore.

Stazione di Chiasso, esterno giorno. Gli agenti hanno alla cintola manette e pistola, la maglia blu con la scritta del corpo di guardia. Mentre li seguiamo per questo reportage, di cui “l’Espresso” ha avuto l’esclusiva per Italia, intercettano un gruppo di eritrei. In tasca a uno di loro trovano 700 euro in contanti; individuano i due potenziali “passeur”: due ragazzini, uno leggermente strabico, l’altro pettinato alla moda, richiedenti asilo in Svizzera. Il “gruppo interforze”, una squadra speciale che si appoggia all’interprete e segue i trafficanti, li raggiunge sul primo binario, dentro l’ex magazzino dove il sergente maggiore Alan Nessi, capo-posto della stazione Chiasso, ha ricavato il centro di smistamento per migranti: «Qui ci possono stare fino a 300 persone in piedi, 100 sedute», spiega.
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Una volta dentro, non si può uscire. Prima vengono aperti i bagagli, poi i profughi aspettano il controllo corporale, in una stanza appartata, e il colloquio con le guardie. Per prima cosa, vengono prese le impronte degli indici e viene assegnato loro un numero. «Non si possono rifiutare», dicono le guardie. Le impronte servono solo alla polizia svizzera. E restano nel sistema per due anni. In modo da scoprire chi ha già provato a sconfinare. Se non chiedono subito asilo politico, ma dicono di voler andare in Germania, o altrove, viene messo loro al polso un braccialetto blu. A ogni profugo è assegnato un colore: giallo per gli adulti; arancione, per i minori; blu per i “respinti”. Nella settimana-tipo presa in esame sono stati fermati ai valichi 1.044 migranti. Di questi, 504 sono stati “riammessi” dall’Italia in base ad accordi da poco rinnovati e ratificati dal Senato.

Chi richiede asilo in Svizzera, viene portato nel centro d’accoglienza, dopo un po’ d’attesa. Gli altri vengono “riconsegnati” ai colleghi italiani. «È la seconda volta che provo», racconta un ragazzo, «altri miei amici l’hanno fatto più volte, alla fine ci sono riusciti». Si accampano. Bivaccano a Como, vicino ai treni. Frequentano la mensa dei poveri. Da Milano spesso partono dopo poche ore dall’arrivo: «Metà degli eritrei arrivati ieri sono già ripartiti», raccontano in un centro d’accoglienza. Tentano più volte la rotta verso la Germania. «L’altra sera le telecamere ne hanno inquadrati quattro che scavalcavano la rete sotto l’autostrada. È pericoloso», dice Attila Lardori, portavoce delle guardie di frontiera. Lì c’erano le telecamere, «ma non possiamo controllare tutto». Sospira. Si tace.

Strada urbana che porta da Como a Chiasso. Al valico di frontiera, fra i bar e le pompe di benzina, vengono fatti scendere da un bus cittadino sei ragazzi. Anche loro eritrei, avevano provato un’altra via, sapendo che i treni sono scandagliati: scesi dal regionale, erano saliti sul pullman di linea. Non ha funzionato. Sono raccolti nel gabbiotto a fianco del valico. Da qui devono essere trasportati in stazione. Ma quando gli agenti fanno uscire il primo per accompagnarlo sul mini-van blindato, lui scappa. Inizia a correre, in salita, per le strade di Chiasso. Esce il fratello, accompagnato da due guardie. Vede il pulmino, nota gli agenti che inseguono l’altro. E prova, anche lui, a scappare. Ma viene placcato. E scoppia a piangere.

Due ore più tardi è riunito al fratello e agli altri amici con cui fugge da mesi. Fugge da un passato di cui non parla nel centro di smistamento. Alla domanda “dove volete andare?” hanno risposto “Germania”. Non possono restare, quindi. E infatti hanno al polso il braccialetto blu. Torneranno in Italia. In quel momento attraversa lo stanzone una guardia, chiede: «Di che razza sono loro? Eritrei?». Nell’ex magazzino è tutto ordinato. Gli agenti indossano guanti, non alzano la voce, i bagagli sono ben impilati, la stanza è pulitissima. L’efficenza svizzera. Applicata alla speranza dei migranti.