Due grandi squadre Usa, una della Grande Mela e i Chicago White Sox, in giro per il mondo a bordo di un translatlantico. Nel 1914. Per promuovere il baseball ancora agli albori. Anche in Italia

Nell’inverno 1914, due importanti squadre di baseball, New York Giants e Chicago White Sox, viaggiavano da Ceylon verso il Cairo, a bordo del transatlantico “Orontes”. Il lungo ed esotico percorso attraversava il golfo di Aden e il mar Rosso. Nei giorni precedenti, a Ceylon, colonia britannica, avevano incontrato il signore del tè Thomas Lipton, che si era fatto autografare una palla da baseball da Charles Comiskey, proprietario dei White Sox, e aveva regalato alla delegazione quasi due quintali di tè.

 

Soprattutto le due squadre avevano giocato un’amichevole. Per questo d’altronde giravano il mondo da mesi: per esibirsi in continue partite l’una contro l’altra e farsi pubblicità. A Colombo, i Giants avevano vinto davanti a circa 5mila spettatori, tra cingalesi nei tradizionali sarong, poliziotti sikh e inglesi in tiro per l’occasione mondana.

 

Qualcuno sulla “Orontes” si diceva contento che la nave avesse un cannone, per paura dei pirati, ma il viaggio continuò senza problemi e la nave sbarcò a Suez. Nei giorni seguenti, le squadre si sfidarono al Cairo, furono ricevute dal chedivè ‘Abbās Hilmī II e si fecero scattare una foto di gruppo sulla piana di Giza, con la Sfinge e la piramide di Micerino sullo sfondo. Qualche settimana ancora, poi questo inaudito giro del mondo si sarebbe concluso.

 

Giocatori e tecnici di White Sox e Giants erano partiti nell’ottobre 1913, girando gli stadi di cinque continenti. L’idea promozionale era avveniristica e favoriva tutto il movimento: chi poteva pubblicizzare il baseball meglio di queste squadre statunitensi di vertice? Era uno sport ancora poco diffuso: durante le Olimpiadi del 1912, gli atleti statunitensi avevano arrangiato una partita di dimostrazione, a beneficio degli atleti di Paesi in cui il baseball era sconosciuto.

 

Un’operazione di marketing di straordinaria modernità, vista da qui, dal nostro presente in cui lo sport tenta anche attraverso il viaggio di conquistare nuovi bacini di appassionati. Limitiamoci all’Italia e al calcio, inteso come un prodotto da esportare su nuovi mercati. Pensiamo alla finale di Supercoppa italiana, che nelle ultime 14 edizioni è stata giocata nove volte all’estero (Cina, Qatar, Arabia Saudita). E soprattutto pensiamo ai tour estivi che si affiancano ai ritiri in montagna per preparare la nuova stagione. In questa estate 2023, l’Inter si esibirà in Giappone, il Milan e la Juventus andranno in California, a Las Vegas e a Orlando, in uno stadio a trenta chilometri da Disneyworld.

 

Il tour intercontinentale di Giants e Sox era iniziato nell’ottobre 1913 con un’amichevole a Cincinnati, e per settimane aveva percorso gli Stati Uniti. Le scuole venivano chiuse per l’occasione, ovunque si ammassavano curiosi, in Arkansas era crollata una tribuna sotto il peso della folla. A metà novembre le squadre si imbarcarono, attraversarono in nave il Pacifico, evitarono un tifone, e all’inizio di dicembre furono a Tokyo. Oltre a fare le turiste sui risciò, scesero in campo per il loro primo match internazionale (vinto 9-4 dai White Sox). Da lì andarono a Shanghai, ma la pioggia non permise di giocare, e poi a Honk Kong e Manila. Il capodanno del 1914 lo festeggiarono a Brisbane, dove il viaggio toccava il suo terzo continente. Rimasero in Australia per affrontarsi anche a Sydney, Melbourne e Adelaide, e incontrarono in amichevole alcune squadre di baseball locali, dimostrando lo scarto con risultati schiaccianti (addirittura un 18-0). La tappa successiva fu Ceylon.

 

A bordo, assieme ai giocatori, ai tecnici e ai due arbitri che dirigevano le partite, c’erano giornalisti, amici, mogli. Nel caso di Jim Thorpe dei Giants, il tour coincideva con il viaggio di nozze. Thorpe, nativo americano, si era sposato con la compagna di scuola Iva Miller pochi giorni prima della partenza. Celebre in tutto il mondo, frontman della spedizione, era stato il più forte giocatore di football al livello universitario e da atleta aveva vinto due ori olimpici, nel Pentathlon e nel Decathlon, ai Giochi del 1912. Quelle medaglie gli erano state revocate alcuni mesi dopo, con una contestata decisione che non aveva scalfito la sua fama internazionale.

 

Lasciato l’Egitto, il viaggio fece un’altra sosta nel Mediterraneo: Giants e White Sox arrivarono in Italia. Fu una settimana di vacanza, perché un problema organizzativo fece saltare l’amichevole di Napoli e il maltempo impedì di giocare a Roma. In quei giorni visitarono Pompei, qualcuno andò al San Carlo per l’opera, una scultura che raffigurava un gladiatore venne regalata al manager dei Giants, il leggendario John McGraw. Incontrarono re Vittorio Emanuele III e poi, in Vaticano, dopo essere scesi in smoking da alcune limousine, vennero ricevuti e benedetti da papa Pio X.

 

Le ultime tre tappe furono Nizza, Parigi e Londra. I temporali infuriavano e si poté giocare solo due volte, ma i Giants e i White Sox e il loro seguito incontrarono due sovrani, Giorgio V del Regno Unito e il cosiddetto re dello Champagne, George Kessler. Infine, il 28 febbraio 1914, si imbarcarono a Liverpool per tornare a casa. Erano trascorsi più di quattro mesi dall’inizio del tour. La nave che li riportava negli Stati Uniti, con i ponti affollati di viaggiatori e le cabine ingombre di souvenir, era la “Lusitania” che un anno dopo sarebbe stata affondata da un sommergibile tedesco. Ma adesso nessuno a bordo, dopo aver girato il Pianeta senza grossi disagi, avrebbe mai immaginato che durante l’estate sarebbe scoppiata una guerra mondiale