I corpi sensuali nella Vienna di Klimt. Il ciclo di Greenaway. I tuffi in piscina di Hockney. Le esibizioni immersive conquistano gli spettatori. Tra elogi e feroci critiche

Che città doveva essere Vienna al passaggio tra Ottocento e Novecento, con Freud e Schnitzler che passeggiavano per le vie del centro parlando di ipnosi e di monologo interiore, della crisi d’identità della borghesia e di tutta quell’angoscia diffusa e condivisa che risuonava anche nella musica di Arnold F.W. Schönberg? L’uomo viennese si preparava a entrare nel Novecento proiettandosi in un cambiamento necessario, abbracciando nuovi canoni estetici. È in quegli anni che Gustav Klimt prende tutto l’oro che aveva visto passare nel laboratorio di suo padre Ernst, orefice e incisore boemo, lo stesso impiegato nei mosaici che aveva studiato durante la sua giovinezza e che aveva visto a Ravenna e a Venezia durante i suoi viaggi, e lo mette sulla tela.

L’ornamento e la pittura, la pittura e l’ornamento: nessuno lo aveva fatto prima, o almeno non così. La Vienna contemporanea luccica per Klimt come Bisanzio. I corpi sensuali di Giuditta, degli amanti del Bacio, di Adele Bloch-Bauer emergono da motivi decorativi fattisi oro. L’oro che richiama quell’età irripetibile del passato, che è memoria lucente dell’infanzia, scintillio e preziosità immutabili nel tempo, quasi un augurio che si fa allo spettatore: quello di essere capace di meravigliarsi ancora nonostante le vicissitudini della vita.

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Ma allora perché limitarsi a esporre dei quadri? Alla Hall des Lumières di New York le immagini dorate del secessionista viennese occupano proiettate su intere pareti, soffitti, pavimenti; il volto di Pallade Atena, con il suo elmo d’oro, campeggia gigantesco sotto un arco, così come i corpi aggrovigliati della Vergine; le tessere decorative, come staccate dalle tele, piovono sugli spettatori che sembrano camminare “dentro” le immagini. L’arte digitale fa delle mostre degli show e gli show richiamano i visitatori come non riuscirebbe a fare un’esibizione artistica tradizionale. Da un decennio vengono definite mostre immersive, perché l’esperienza, si dice, deve essere totale. La Hall des Lumières occupa l’ex sede di una delle banche più vecchie di New York, l’Emigrant Industrial Savings Bank: le sue architetture ottocentesche, con ampi saloni, colonnati e scale simmetriche, sono perfette per proiettare in scala giganteggiante le immagini dei quadri di Klimt. E anche se i critici non amano questo genere di show, il pubblico accorre entusiasta.

Culturespaces, l’azienda francese che ha inventato la Hall des Lumiéres e che allestisce questo tipo di mostre, con l’esperienza immersiva su Van Gogh a Parigi ha attratto un milione e mezzo di visitatori (o sarebbe meglio dire, spettatori?).

Nel 2002 è stato portato in scena a Milano uno spettacolo teatrale di Luca Ronconi, si intitolava “Infinities” e aveva l’ambizione di spiegare cinque paradossi sull’infinito. Si trattava di un vero e proprio percorso pensato attraverso gli spazi degli ex laboratori della Scala alla Bovisa: gli spettatori assistevano a cinque pièce diverse, attraversando fisicamente gli spazi della scena. Forse possiamo dire che fosse un teatro “immersivo”, ma certo l’approfondimento intellettuale di ogni tappa non si poneva il semplice scopo di impressionare lo spettatore: c’era il tentativo di farlo ragionare intorno a un concetto matematico e filosofico al quale nella vita quotidiana non pensiamo spesso, ma che in fondo ci riguarda tutti. E qui? Possiamo dire lo stesso?

«Secondo me bisogna fare delle differenze tra le mostre di carattere immersivo», dice Vincenzo Trione, critico e storico dell’arte: «Ci sono quelle più diffuse, nelle quali ci si affida a un modello che è sostanzialmente sempre lo stesso. Si sceglie una grande personalità - Van Gogh, Klimt, Michelangelo - e senza nessun tipo di ricerca iconografica si presentano dettagli di opere che vengono ingigantiti, spettacolarizzati, resi hollywoodiani. È la costruzione di macchine neo-barocche, vuote, che servono a intrattenere per qualche ora e che sposano il kitsch».

La cultura va trasformandosi in intrattenimento: sempre a New York si può visitare la living-gallery di “Alice nel paese delle Meraviglie”, dove l’invito è proprio quello di far parte di un nuovo mondo che non finirà di stupire: «Fall down the rabbit hole into a world of secret rose gardens, mad tea parties». Scriveva Giovan Battista Marino, poeta tra il Cinquecento e il Seicento, in Italia massimo esponente della poesia barocca: «È del poeta il fin la meraviglia».

Barocco, baroque, che in francese significa bizzarro, irregolare. Il barocco era l’epoca delle linee curve, della perdita delle proporzioni, degli effetti illusionistici. Le mostre immersive sono una nuova forma di barocchismo pop, un esercizio puramente formale, che si pone come scopo quello di lasciare il pubblico senza parole. E la meraviglia la conosciamo tutti, ognuno di noi l’ha sperimentata almeno una volta nella vita.

Ma non c’è solo questo tipo di immersività, sottolinea Trione. «Sono i casi in cui si usano le tecnologie per consentirci di vedere in modo approfondito. Il caso più significativo è il ciclo di Peter Greenway, intitolato “Classic Paintings Revisited”: a partire da tre capolavori – “Le nozze di Cana” di Veronese; “La ronda di notte” di Rembrandt; “L’ultima cena” di Leonardo – Greenaway ha costruito delle installazioni immersive potentissime, in cui le opere appaiono inedite e in cui si colgono particolari che altrimenti non avremmo mai notato».

Fa caso a sé invece David Hockney, provocatorio anche a 85 anni, unico artista noto che ha contribuito all’allestimento immersivo di una sua mostra: si chiama “Extravaganza” ed è stata inaugurata a Londra lo scorso febbraio. Molto criticata, forse kitsch, però perfettamente in linea con la poetica soggiacente del “bigger splash”, quei tuffi in piscina che lo hanno reso famoso, lì a dire una propensione al coinvolgimento di tutti i sensi.

La cultura immersiva racconta molto dei nostri tempi, di quella diffusa diffidenza nei confronti della cultura ufficiale. La spettacolarizzazione giocosa è il propulsore di un rinnovato interesse, attira empatia. Quello che conta però non è l’interiorizzazione, né il pensiero che si articola in più punti, ma il divertirsi, l’essere meravigliati. Ci sono tanti tipi di meraviglia, c’è anche quella adulta che ha a che fare con le prese di coscienza; ma in questi tempi di infantilizzazione del mondo, c’è la necessità primaria di rimanere a bocca aperta, in una sorta di stordimento dei sensi. Certo, alcune iniziative necessitano delle più avanzate tecnologie: la professoressa Sarah Kenderdine, esperta di nuovi allestimenti, sa che i musei possono essere luoghi dove accedere a tesori culturali quasi irraggiungibili come le Grotte di Mogao in Cina, proprio grazie all’induzione di certe esperienze. Tuttavia le mostre immersive, quelle di maggiore successo, dicono anche che «c’è ancora un bisogno diffuso di arte» osserva Trione: «Arte però alla portata di tutti, non troppo diversa da certi spettacoli televisivi, ma neanche troppo diversa dal modello dei “panorama” francesi ottocenteschi, dove c’era l’idea più dello stupore che di conoscenza».

Non possiamo accontentarci di questo, di rimanere “senza parole”: dunque in una zona che viene prima di qualsiasi articolazione di pensiero. La sfida futura sarà mettere le tecnologie immersive al servizio di processi conoscitivi. Trasformare l’apprendimento in divertimento sì, ma non fine a sé stesso. La sfida sarà entrare nel “Paese delle meraviglie” per uscirne un po’ diversi da come siamo entrati nella tana del coniglio.