«Lavorare per me è una necessità, mi tiene vivo, mi piace. È il mio sport di oggi». Protagonista di tanti film indimenticabili, l’attore e regista americano a quasi 70 anni è più impegnato che mai: tra nuove uscite, serie tv. E uno spettacolo teatrale. In arrivo al Campania Teatro Festival

Com’è essere John Malkovich? Se lo chiedeva nel 1999 Spike Jonze con il film pluripremiato agli Oscar “Essere John Malkovich”. Il diretto interessato risponde oggi a L’Espresso: «Essere abbastanza vecchio, avere una buona memoria e non smettere mai di lavorare».

 

John Malkovich, 69 anni, non ha perso il senso dell’umorismo, tanto meno la voglia di lavorare: si esibisce sul palco del Campania Teatro Festival, ha in arrivo più di dieci film e la serie tv “The New Look”. Eppure di persona appare sereno, rilassato, solo quando parla del collega Julian Sands il suo volto si incupisce. Dato per disperso durante un’escursione a gennaio, è stato appena ritrovato morto, nelle montagne della California. Era un suo caro amico, insieme hanno recitato anche nel film che Malkovich ha presentato alla scorsa Berlinale “Seneca”.

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Come si sente?
«Molto triste. Ero profondamente legato a Julian, ci conoscemmo trent’anni fa sul set di “Killing Fields” e siamo rimasti sempre uniti. Sono il padrino del suo primogenito, conosco bene la sua prima moglie Sarah e sono stato io a presentargli la seconda moglie Eugenia. Sono senza parole».

 

È inutile temere la morte, dice nel film “Seneca” nei panni del grande filosofo.
«Già, fa parte della vita. Per interpretare Seneca mi sono documentato a lungo sui testi latini, ho studiato tanto, letto Tacito e mi sono riguardato il Socrate di Rossellini. Il cinema italiano è da sempre grande fonte di ispirazione per me».

 

Il suo regista italiano preferito?
«Bernardo Bertolucci. Lo amavo. Aveva un umorismo straripante, l’esatto opposto del pessimismo di Woody Allen. Bernardo era una persona veramente divertente e un caro amico, amavo stare con lui e lavorare insieme a lui. Anche se mi rimproverava».

 

Perché?
«Non concordavo con lui sul fatto che ogni film dovesse essere politico».

 

Fare un film non è di per sé un atto politico?
«Questo sosteneva lui, io continuo a non essere d’accordo, mi spiace: un film viene da dentro, racconta qualcosa di molto personale. Può essere politico, ma non è detto che lo sia o lo debba essere. Non mi sembra possibile, inoltre, prevedere la percezione degli spettatori, quello che penseranno di un film».

 

Il pensiero del pubblico è qualcosa che la interessa?
«Non quando accetto un ruolo, non mi interessa fare film che diventeranno campioni di incassi come “Titanic”, mi basta che siano storie originali raccontate in un modo speciale. Mi interessano anche i giudizi dei detrattori, che a volte detestano film per motivi validissimi: quello che ho imparato, in decenni di carriera, è che detrattori e adulatori vanno accettati in egual misura, fanno parte del gioco».

 

Anche invecchiare fa parte del gioco?
«Mi atterrisce più la demenza della vecchiaia. È stata diagnosticata ad alcuni miei amici coetanei, ma conosco persone anche molto più giovani di me con lo stesso problema. Perdere la memoria è uno dei miei grandi timori».

 

Non corre pericolo: Geraldine Chaplin, di recente intervistata da L’Espresso, mi ha detto che ha una memoria di ferro.
«Ho una super memoria, è vero. Quando non bevo. Quando bevo un po’ meno».

 

Viva la sincerità. Come si allena?
«Lavorando. Un giorno imparo nove pagine a memoria per una serie tv, un altro passo sei settimane tutto il giorno solo a imparare un monologo, dipende. Un attore passa il tempo anche così, imparando, ripetendo, solo che questo nessuno lo vede».

 

Quale attore, in 45 anni di carriera, le è rimasto più impresso tra tutti quelli che ha incontrato?
«Marcello Mastroianni. La sua gioia di recitare è stata una grande lezione per me».

 

Ci sono film che rimpiange perché avrebbe potuto interpretarli meglio, o diversamente?
«Pochi, a dire il vero. Uno è “Attenti al ladro” con Andie MacDowell».

 

Qual è il segreto per essere John Malkovich?
«Lavorare, e amare profondamente il proprio lavoro. Alcuni miei colleghi, in realtà, non lo amano, io da sempre non vedo l’ora di stare sul set».

 

I suoi figli la seguono in giro per i vari set nel mondo?
«Loewy e Amandine da piccoli venivano sempre con me, soprattutto a teatro, adesso (hanno 31 e 33 anni, ndr.) meno. Appena torno dai miei viaggi di lavoro, in compenso, sto più tempo possibile con i miei nipoti».

 

Ma è un’impressione oppure oggi lavora più di prima?
«È proprio così. Per me è una necessità, mi tiene vivo, mi piace. È il mio sport di oggi, da giovane ne praticavo molti altri di sport: giocavo a football, basket, tennis, baseball. Non mi bastava un solo sport. E in fondo oggi accade un po’ la stessa cosa: non mi basta un solo film».

 

Ha abbracciato senza riserve il mondo delle serie tv: il cinema non le bastava?
«Considero le serie tv come un ampliamento di narrazione. In più, i tempi sono molto veloci: quando ho iniziato a fare l’attore passavo gran parte del tempo seduto ad aspettare mentre aggiustavano il set, le luci e tutto il resto. Adesso i tempi morti non ci sono più, e questo da un certo punto di vista è meglio».

 

Il grande pubblico l’ha amata in abiti papali nella serie di “The New Pope” di Paolo Sorrentino. Che ricordo ne conserva?
«Antonioni sapeva mettere gli attori in uno spazio estetico meraviglioso, Paolo Sorrentino fa la stessa cosa ma sa anche cosa far fare agli attori in quello spazio così speciale. È un regista divertente, scrive davvero bene. Amo qualsiasi film che fa, ritengo sia un grande talento con un’accuratezza visiva, una poesia, una grazia e un senso dell’umorismo davvero rari. Come autore sa guardare, oltre che raccontare. Dice di non essere bravo con gli attori, io, invece, lo trovo bravissimo».