Tra zone industriali e centri commerciali, il nostro patrimonio è vittima di una malattia

Giro l’Italia da Nord a Sud di continuo e la osservo. Una malattia oscura l’attanaglia: la bruttezza architettonica. Sembra il discorso che faceva l’autista di Johnny Stecchino, «la piaga di Palermo è il traffico», però è vero.

 

Abbiamo un tesoretto di centri storici e opere antiche di cui campiamo: è l’eredità di una civiltà secolare che ha fatto scuola nel mondo e di cui ci troviamo amministratori, ma non prosecutori, visto che sono decenni che non costruiamo altro che rotonde, centri commerciali e zone industriali (non nominatemi piazza Gae Aulenti a Milano, quella è un centro commerciale). Il che va bene, vuol dire che c’è crescita, però mi domando come sia possibile che sia così tollerato il tono lugubre dell’architettura odierna. Il paesaggio in Italia è tutelato dal 1922, lo aveva capito già Benedetto Croce che andava fatto, ma questa tutela riguarda solo i centri storici, alla fine.

 

«Tutta l’Italia, in assenza di qualsiasi effettiva programmazione economica e urbanistica, rischia di essere a poco a poco ricoperta, dalle Alpi al Capo Passero, da un’informe, ininterrotta, repellente crosta edilizia di asfalto che tra qualche decennio ne cancellerà praticamente ogni carattere e fisionomia». Lo scriveva nel 1975 Antonio Cederna in “La distruzione della natura in Italia”. Oggi vediamo che è realmente accaduto.

 

Le zone industriali in costante espansione sono territori che nemmeno Giorgio De Chirico avrebbe immaginato così spogli. In questo Paese – «de most biutiful cauntri in de uorld» (Francesco Rutelli) – non sei libero di pitturare la facciata di casa a pois per rispettare le norme sul paesaggio, ma è lecito sviluppare questi agglomerati di cemento armato, catrame e plastica che si estendono per chilometri, queste interzone da metavita senza alberi, trafficate solo da camion e furgoni. Sembrano le «strade morte» dei romanzi apocalittici di William Burroughs: «Non significa strade che non vengono più usate, significa strade che sono morte. Capite la differenza?». Come siamo passati dalla sapienza e dai capitelli, dagli affreschi e dalle cappelle a questi parallelepipedi color topo?

 

Attorno alle zone industriali brutte sorgono bar brutti, case brutte, scuole brutte e quindi vite brutte, contagiate dal brutto architettonico. Ripeto, il nostro core business dovrebbe essere il Bello, ma non possiamo limitarci a quello di secoli fa e costruirgli attorno oscenità. Credete che vivere attorno a questi non luoghi non abbia conseguenze? Conosco scuole in zone come quelle che ho descritto in cui, per nove mesi l’anno, i ragazzi vedono tutti i giorni la bruttezza. Le scuole meritano poi un capitolo a parte, tutte con le loro planimetrie esposte e gli estintori pronti, ma niente affreschi, quadri, giardini o fontane, solo mogi lavoretti degli alunni là dove si può illuminati da lugubri luci al neon che nemmeno all’ospedale. Come puoi educare alla cultura le nuove generazioni se le fai vivere nel grigio? Pensate che basti la gita una volta l’anno in qualche città d’arte?

 

Ci sono assessori in ogni città, ci sono politici che dovrebbero occuparsene, ma in base a quali linee guida? A quali direttive? Non c’è un vero pensiero di tutela del paesaggio. Sarebbero graditi ministri della Cultura che fanno le barricate per cause del genere e non per le uscite di Vittorio Sgarbi al Maxxi. L’emergenza del Bello per noi è urgente come quella per il clima.