Corea del Sud e Stati Uniti. Italia e Kuwait. Uniti dal rapporto malato con la produttività. E alla fine il dubbio insinuato da Erik Gandini: e se un giorno smettessimo?

Tristi tempi. Una volta i “mondo movie” dragavano sesso e orrori per colpire sotto la cintura (nessun rimpianto, per carità). Oggi l’italo-svedese Erik Gandini, già autore fra l’altro di un film su Berlusconi e sugli effetti più nefasti delle sue tv, “Videocracy”, batte l’Italia e il Kuwait, gli Usa e la Corea del Sud, chiedendosi perché il mondo intero è ossessionato dal lavoro, in un senso o nell’altro, e se il futuro ci libererà da questa ossessione. Inaugurando un’era in cui il lavoro non sarà più il perno economico, quando non interiore, delle nostre vite.

Vasto progetto. Più che un docu ritmato e ribaldo, zeppo di esistenze e personaggi al limite, ci voleva forse una serie capace di approfondire, contraddire, collegare in un disegno ancora più sfaccettato i dati e le suggestioni che sfilano con palese malizia.

Perché in Corea del Sud il ministro del Lavoro è costretto a lanciare una campagna promozionale per convincere i cittadini a sgobbare meno? Come mai gli Usa, monumento al calvinismo, bruciano ogni anno 578 milioni di giorni di ferie non godute, mentre nel Kuwait arricchito dal petrolio si usano 20 salariati per fare il lavoro di una persona e ogni famiglia ha in media due collaboratori domestici, naturalmente immigrati? E ancora: cosa penseranno del lavoro, e del reddito di cittadinanza, gli esponenti (italiani stavolta) degli strati più privilegiati?

Ovviamente il lavoro, come la ricchezza, è il luogo delle diseguaglianze più estreme. In ogni senso. C’è chi lo fa con passione e gratificazione (il 15 per cento degli individui secondo la Gallup) e chi lo vive passivamente o addirittura detesta e boicotta più o meno attivamente la propria occupazione (il restante 85 per cento, sempre dati Gallup). Per non parlare di chi un lavoro, qualsiasi lavoro, se lo sogna. Anche se Gandini, registrate velocemente parole e opinioni di alcuni grandi nomi (Yuval Noah Harari, Noam Chomsky, Elon Musk, Luca Ricolfi, Yanis Varoufakis), insinua un dubbio. Magari la religione del lavoro ha fatto il suo tempo.

Forse il reddito universale (una necessità, sentenzia Elon Musk) ci libererà da questo fardello e potremo goderci il tempo libero. Anche se Harari ammonisce: presto l’irrilevanza sarà peggio dello sfruttamento. Per non parlare di quei giovani gaudenti in spiaggia, non una gran pubblicità al nuovo mondo.

Così, più che le idee restano le immagini. La dipendente Amazon e le 5 videocamere nel furgone che monitorano ogni suo istante. L’inserviente (immigrato) che lustra il pavimento del centro commerciale a effetto acquario in Kuwait. L’italiano nato ricco anzi ricchissimo che cura e pota il suo giardino. Un labirinto, guarda un po’.

After Work
di Erik Gandini

Svezia–Italia–Svizzera, 77’

 

AZIONE! E STOP

 

“L’ultima notte di Amore”, il bel film di Andrea Di Stefano con Pierfrancesco Favino poliziotto corrotto, preso sottogamba in Italia, esce in Francia con ottime recensioni. Peccato che qualcuno ceda alla nostalgia. «Il fantasma di certo dimenticato cinema poliziesco transalpino» sentenzia Le Monde. Con molta miopia.

 

Non hanno aspettato la morte e nemmeno la malattia. Le lodi del Berlusconi produttore giravano già da tempo. Un modernizzatore. Un mecenate illuminato. L’uomo che ha rilanciato il glorioso cinema italiano. Un grande finanziatore anche del cinema di sinistra. E via di seguito. Colonna sonora: un pernacchione di Totò.