Un bimbo ebreo ammalato riceve i sacramenti di nascosto. Una sorta di “caso Dreyfus” dimenticato, all’ombra del Risorgimento. Dove esplodono temi cruciali: nazione, famiglia, religione

Chi ha visto “Marx può aspettare” sa che  a casa Bellocchio col battesimo non si scherza. Il gemello di Marco, Camillo, nacque tre ore dopo il futuro regista e la madre, temendo morisse, lo fece subito battezzare. Tre volte già che c’era, i Bellocchio erano molto devoti. A somministrare i sacramenti a Edgardo Mortara, piccolo ebreo nato nel 1851 a Bologna, è invece una domestica cattolica che vedendolo febbricitante e sentendo i genitori pregare lo battezza di nascosto segnandone il destino. Pochi anni dopo un maresciallo, peraltro mite e premuroso (eccellente Bruno Cariello), bussa a casa Mortara, una vasta dimora borghese piena di stanze e di bambini: siamo nel 1858, Bologna è Stato Pontificio, Edgardo (Enea Sala) ormai appartiene alla Chiesa.

Seguono vane suppliche all’Inquisitore (un Fabrizio Gifuni scintillante di perfidia), irruzione di sgherri nerovestiti, rapimento notturno del bimbo caricato su una carrozza sferragliante tra De Amicis e Poe, fuga a Roma con sosta nel Duomo di Senigallia, dove Pio IX era stato battezzato. E al piccolo Edgardo in lacrime appaiono le prime immagini di un mondo ignoto, minaccioso quanto affascinante. Il Battesimo di Gesù, un Cristo in croce, San Sebastiano. Lo strappo si è consumato. A nulla varranno le denunce e lo scandalo internazionale, le pressioni dei Rotschild, le angosce del cardinale Antonelli (Filippo Timi).

Il piccolo Edgardo cresce sulle ginocchia di Pio IX, ultimo Papa Re (un ineffabile Paolo Pierobon). Nella Casa dei Catecumeni, fra altri piccoli cristianizzati a forza, scopre l’astuzia, la simulazione, la morte (c’è anche un bambino malato). E il fasto, la potenza, le seduzioni di quella fede così diversa.

Quando, adulto, si troverà di fronte il fratello, tra i bersaglieri che irrompono a Porta Pia, Edgardo (Leonardo Maltese) è ormai un altro. Un sacerdote cattolico, sia pure scosso da violenti lampi di rivolta. Un “traditore” insomma, altro tema caro a Bellocchio.

Un’anima spezzata intorno a cui questo regista, capace come nessuno di indagare la dimensione carnale della politica, tesse una complessa polifonia di voci, sentimenti, visioni: i genitori, divisi a loro volta (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi); gli ebrei romani, stretti tra sotterfugi e sottomissione (Paolo Calabresi); le strategie (e i grotteschi incubi) del pontefice; naturalmente il Risorgimento, mai in primo piano. In un gran teatro che rimescolando nazione e famiglia, religione e identità, scava nel profondo, dando a questo dimenticato “caso Dreyfus” preunitario un’urgenza e un impatto inesorabili. L’ennesima grande prova di un regista che non finisce di stupire. E per il nostro cinema una - laicissima - benedizione.

 

Rapito
di Marco Bellocchio
Italia-Francia-Germania, 134’

 

AZIONE! E STOP

 

Il Risorgimento? Una miniera. Storie mai raccontate, personaggi da scoprire, icone da ribaltare. Dopo “Rapito” esce infatti “La versione di Anita” di Luca Criscenti, docu-fiction che ripercorre la breve e tumultuosa vita di Anita Garibaldi sottraendola all’abbraccio dell’Eroe dei due mondi. Per restituirle tutta la sua complessità e la sua libertà.

 

Agli incassi pensa l’AI. Sede a Losanna, ideatore turco, ambizioni mondiali. L’ingegnere informatico Sami Arpa ha messo a punto un sistema capace di predire il successo di film e serie analizzando cast, trama, genere, set, lingua. Per poi suggerire eventuali modifiche. Addio sorprese dunque. Al cinema e in tv dilagheranno i cloni. Che noia.