I ragazzi in tenda contestano il caro affitti, rivendicano i loro diritti, pretendono di poter vivere una città. E noi adulti sappiamo solo criticarli

Basta generalizzare, non se ne può più. La battaglia per il caro affitti è diventata degli studenti con le tende e subito quello che era un tema trasversale a gran parte della popolazione viene etichettato come un problema «dei giovani» e «di Milano». Perché politici e media parlano di affitti invece che degli stipendi che non crescono da trent’anni? Se avessimo più soldi in tasca tutti, nessuno protesterebbe per gli affitti troppo cari.

 

Perché se son giovani è facile criticarli, è facile ricordare loro come ai tempi nostri facessimo tutti i pendolari e ci sorbissimo ore di treno (come se non fosse ancora così per milioni di ragazzi e adulti). Se sono i giovani a chiederlo è sicuramente segno di quanto sono viziati e fighetti a voler vivere a Milano. Questa città che prima ribattezziamo «capitale morale» del Paese, e la meniamo a tutti su quanto sia speciale, poi però vogliamo che sia una città per ricchi e automi del lavoro. Zombi produttivi e zitti, pagar le tasse e fare cassa, come on, LAVORARE!

 

Come se non servisse vivere in una città del genere per venire a contatto con realtà professionali prestigiose, come se non fosse utile frequentare un luogo, tessere rapporti e relazioni e viverci. Che ipocrisia. Ma poi che male c’è nel voler vivere a Milano? La vita non deve essere solo sacrificio e lavoro, deve esserci una parte per lo svago, l’approfondimento, la cultura: e, di sicuro, l’offerta di Milano a riguardo non ha concorrenti.

 

I giovani servono anche a noi, grazie a loro si creano connessioni, scene artistiche, locali, vita. New York non sarebbe stata New York senza i suoi giovani, così come Londra o Berlino. E aggiungo: quanto credete che si risparmi a vivere nell’hinterland? Tra ore spese sui regionali di Trenord, tra disservizi, ritardi, camminate notturne al freddo e al buio in cerca di fermate di linee sconosciute, ci si trova in un deprimente orizzonte di serrande chiuse alle 20 e nessuno in giro quando cala il buio. Sinceramente a vent’anni si ha bisogno d’altro.

 

Altra accusa subliminale che si fa agli studenti: sono gli unici che protestano, non hanno niente da fare. Vero, ma sono gli unici che protestano perché sono rimasti i soli che credono di poter cambiare qualcosa. In fin dei conti hanno vent’anni, sono idealisti, come cantava Francesco Guccini: «Perché a vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto chi lo sa. A vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età».

 

Noi adulti responsabili ormai ci siamo piegati a tutto, non mettiamo più in discussione niente, siamo filogovernativi sempre: sì a tasse, restrizioni, precariato. Proteste? Zero. Siamo talmente forgiati in una logica del produci-consuma-crepa che manco ci facciamo più caso a bruciare un terzo dello stipendio per avere un tetto, persino in provincia.

 

Il vero peccato sapete qual è? Che i giovani e noi non abbiamo ancora fondato un’altra Milano, un’alternativa. Ci siamo limitati ad albergare ai margini dell’esistente mendicando per prenderne parte, quando invece dovremmo esserne gli architetti. E i nostri compari, quelli che pure loro ne beneficerebbero, sono i primi a darci addosso appena glielo si fa notare.

 

La Milano della contro-cultura che abbiamo conosciuto dal Dopoguerra ai Duemila è sparita, adesso è il tempo della Milano degli influencer, della moda e del profitto. E i risultati si vedono.