«Il Paese reale è molto più avanti: basta vecchi al potere», dice l’attore, protagonista del film di Marco Bellocchio “Rapito”. E qui parla di buddismo e di teatro, di difficoltà e dei “I delitti del BarLume”: un’allegra “casa-vacanze”

«A 83 anni Marco Bellocchio è il regista più punk che abbiamo in Italia...». A parlare è Filippo Timi, 49 anni: per lui il nuovo film “Rapito” di Bellocchio, in concorso a Cannes e dal 25 maggio al cinema, rappresenta un triplo ritorno. Torna a lavorare con il cineasta di Bobbio dopo “Vincere” e “Sangue del mio sangue”, torna al Festival di Cannes e torna a recitare in abito talare dopo “In memoria di me” di Saverio Costanzo.

 

Abbonato ai personaggi controversi, nel film di Bellocchio interpreta un cardinale stratega, più attento ai movimenti economici e politici della Chiesa che al suo valore spirituale. Più avanti lo vedremo nella serie “Dostoevskij” firmata dai Fratelli d’Innocenzo e nella nuova stagione della serie “I delitti del BarLume” su Sky e Now.

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Partiamo da Bellocchio, com’è stato questo ritorno?
«In realtà, ci teniamo sempre in contatto, mi capita di sentirlo, di invitarlo a teatro, “c'è” nella mia vita. Ogni volta che mi propone un ruolo per me è la chiamata del maestro, sul set lo osservo lavorare e mi chiedo dove posi lo sguardo un genio. Nessuno come lui sa raccontare una storia dal di dentro restituendola con un’architettura narrativa e una vitalità tanto sorprendenti».

 

“Rapito” racconta la storia vera di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che nel 1858 fu strappato alla propria famiglia per volere di Papa Pio IX.
«Di base c’è un tema molto umano, la sottrazione di un bambino alla propria famiglia, alla propria mamma, confesso che quando ho visto il film ero in lacrime. Ma ho trovato stupenda anche la figura del Papa: il film mostra il crollo del potere della Chiesa, la scena con un enorme muro abbattuto ne è potente metafora».

 

Lei interpreta il Cardinale Antonelli, una sorta di tesoriere-stratega del Papa.
«È il suo fedele segretario personale, un’intelligenza sopraffina al servizio di quello che ai tempi era il Re della Chiesa e non solo. Si confronta con lui nelle situazioni più difficili, parlano di come il caso di questo bambino sia diventato uno scandalo, tutti i giornali si scagliano contro il Vaticano, il mondo è scioccato dalla figura di un monarca assoluto che può dar conto solo a Dio, e dunque è fuori da ogni altra legge umana».

 

Un uomo di Chiesa opposto a quello che interpretò in “In memoria di me”.
«Qui sono più un soldato, mi si vede stringere monete perché ho il compito di gestire il tesoro della Chiesa. Più che in un senso religioso ho lavorato sul versante politico del personaggio».

 

È un film che si scaglia contro ogni fanatismo religioso: la stimola lo spessore politico del cinema di Bellocchio?
«Molto, specie perché non fa mai sentire una presa di posizione esplicita. Da artista libero qual è non si cura di ciò che va di moda, dei premi, o del pensiero che va per la maggiore. Racconta con grande vitalità storie anche molto forti, come questa, con il tocco di un poeta. Come Pasolini. Il bello dei poeti è che non si possono definire».

 

Fuori dal personaggio, lei è religioso?
«Sono buddista ormai da anni, prego tre volte al giorno e mi piace molto. Ognuno di noi dovrebbe meditare, chi fa l'artista non può prescindere dal dialogo con la sua parte spirituale».

 

Come sceglie oggi i suoi progetti?
«Ho la fortuna di fare solo cose che mi piacciono. Il lavoro mi salva la vita. Senza lavoro ho solo la mia cagnolina Tarquinia che mi riempie il cuore e le giornate».

 

Ha vinto il Nastro d’argento per “Il filo invisibile” in cui con Francesco Scianna interpretavate una coppia omogenitoriale alle prese con un figlio adolescente. Un film più che mai attuale
«È uscito l’anno scorso, la testa degli italiani si era appena emancipata e ora vogliono farci tornare indietro. Basta: anche mia zia e il pubblico di Forum non ce la fanno più a sopportare certe idee, che non rispecchiano la maggior parte del Paese. Le nuove generazioni sono molto più aperte di chi è al potere: “i vecchi”, è normale che i punti di riferimento siano altri».

 

Gli elettori però tendenzialmente rispecchiano chi è al potere.
«È un altro discorso, è ovvio che dopo un disastro di sinistra ci volesse un disastro della destra. Mia madre amava il prosciutto cotto? E io lo detesto. Va così, il punto è che siamo tutti sul Titanic, a volte c’è chi sta su e vede le stelle e gli altri giù davanti all'acqua, poi la situazione si rovescia e quelli che stanno giù finiscono su, ma resta che stanno e stiamo sempre sul Titanic. Però non è giusto tornare indietro, quando il Paese che è già avanti».

 

Ha trent’anni di carriera, riconoscimenti e candidature prestigiose, cosa l’aiutata a tenere aperta la mente?
«Il teatro. Sapere cosa significhi non mangiare. Ero nella compagnia teatrale di Giorgio Barberio Corsetti, e per dieci anni ho faticato, persino quando ho vinto il premio Ubu c’erano giorni in cui se non mi invitava un amico non mangiavo».

 

Che cosa direbbe oggi al Filippo di quei tempi?
«Che scemo a concentrarti sul problema del balbettio. Sia chiaro, è un problema serio, specie per chi fa l’attore. Non sa quanta insicurezza mi ha causato, eppure oggi a 50 anni capisco che in fondo mi ha protetto, è stato il mio scudo, concentrarmi su quello mi ha distolto da altre preoccupazioni».

 

La vista come va?
«Sempre uguale, non ci vedo un c**o. La mia malattia non migliora né peggiora, risolvo con i soldi: prendo il taxi e non il bus, non guardo la scadenza dei prodotti e compro a caso al supermercato. E i miei copioni dei film sono a carattere 100».

 

Anche quelli delle serie, come “I delitti del BarLume”?
«La nuova stagione è strepitosa, il segreto del successo della serie è il regista Roan Johnson e il fatto che tutti facciamo il tifo per tutti, c’è un’atmosfera familiare incredibile, da casa vacanze».

 

E poi la vedremo in Dostoevskij.
«Non vedo l'ora, i Fratelli D'Innocenzo sono due autori incredibili, due Michelangelo con cui abbiamo fatto la Cappella Sistina».

 

Ci è rimasto male per il David mancato per la sua performance in “Le otto montagne”?
«Era già bellissimo essere lì e sono contento che sia stato decretato miglior film dell’anno, ma per quanto uno se ne voglia fregare in fondo la voglia di vincere in quel momento c’è. Perché hai faticato tanto, perché hai voglia di ringraziare il babbo, la mamma, tutti coloro che ti hanno seguito in tutto il percorso. Ma anche i casting director come Stefania De Santis che è stata la prima ad aver creduto in me. Ecco, avrei volentieri dedicato il David a loro. Sarà per la prossima volta».