Dopo 50 anni Ozon capovolge “Le lacrime amare di Petra von Kant”. E mette in luce tutta l’attualità delle ossessioni del geniale regista tedesco morto negli anni 80

Gennaio 1972: R.W. Fassbinder gira in 10 giorni “Le lacrime amare di Petra von Kant”, tutto in un appartamento, per 325.000 marchi. Febbraio 2022: Ozon porta alla Berlinale un remake di quel film al maschile. Petra diventa Peter. L’affermata stilista sempre chiusa in casa ora è un regista talentuoso e tormentato, evidente alter ego di Ozon (come già Petra di Fassbinder). L’oggetto d’amore impossibile non è più una giovanissima Hanna Schygulla bensì l’indocile Khalil Garbia, una specie di Ninetto Davoli nordafricano che presto si ribella all’amore-possesso del suo pigmalione smascherandone egoismo e crudeltà. Anche la segretaria factotum che sopporta in silenzio la tirannia di Petra/Peter cambia sesso: al posto di Irm Herrmann c’è l’efebico Stefan Crepon. Mentre l’appartamento-teatro-laboratorio-prigione di Peter, tutto tinte forti e kitsch anni 70 (più vari San Sebastiano), resta coprotagonista.

 

Analogie e differenze potrebbero continuare, ma il punto di contrasto è un altro: l’autore. Fassbinder aveva 26 anni e già 11 film al suo attivo. Ozon, eclettico, prolifico e da sempre ossessionato dal grande tedesco (“Gocce d’acqua su pietre roventi”, 2002, suo terzo film e tra i suoi migliori, era tratto da una pièce inedita di Fassbinder), non è un autore maledetto ma un riverito (e ironico) cineasta francese che affronta il remake come farebbe un regista di teatro con un classico. Portandolo a sé. E al sentimento del presente, anche se epoca e ambientazione teutonica sono quelle originarie.

 

Così, se la Petra di Margit Carstensen era gelida, Peter (monumentale Denis Ménochet) è un vulcano. Il lavoro di Petra era solo una cornice. Il cinema di Peter diventa un doppio della vita e dei meccanismi di potere all’opera ovunque. Fassbinder scopriva per così dire in diretta (di qui maschere e filtri) che «l’amore è più freddo della morte». Ozon lo sa già. Ma sa pure che ognuno di noi si ostina a far finta di niente. Dunque preme sul pedale della rappresentazione. Prende la diva Isabelle Adjani, con tutto il suo peso, per il ruolo dell’amica attrice, mentre la Schygulla fa la madre di Peter. E dà al dolore, all’angoscia, alla furia colpevole e (auto)distruttiva di Peter, variata mille volte dallo stesso Fassbinder fino al memorabile “Germania in autunno”, la violenza esibita di un rito. Un rito che esprime la purezza disperata di un sentimento e insieme la nostalgia per quel sentimento. Si può trovare il tutto artificioso. Ma ci si può anche abbandonare all’impeto travolgente di questo gioco di specchi che mezzo secolo dopo non ha perso un grammo di forza e di verità. Fassbinder è morto nel 1982. Ma è più vivo di tanti contemporanei.

 

Peter von Kant
di François Ozon
Francia-Belgio, 85’

 

AZIONE!
Su Fuori orario “La strada dei Samouni”. Arriva su Raitre il capolavoro di Stefano Savona, un poetico mix di documentario e animazione “graffiata” (dal team di Simone Massi) per evocare una strage degli innocenti perpetrata dall’aviazione israeliana a Gaza nel 2009. Uno dei più bei film italiani del decennio. E dei più invisibili.

 

E STOP
Vuoti di memoria ai David. La produttrice Marina Cicogna spiazza tutti sul palco per lucidità e libertà di pensiero. Ma nessuno cita i protagonisti di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, Gianmaria Volonté e Florinda Bolkan. Né il regista del docu dedicato alla grande produttrice, Andrea Bettinetti. Lo facciamo noi.