Stessi eccessi e stesse urla. Un po’ tragedia greca, un po’ soap opera. Ma la nuova stagione della serie Sky convince decisamente più della prima

C’è il sangue, il corpo, la carne, l’odio. Il destino crudele, l’amore dannato, il male che si avvinghia nel cuore ed è pronto a restare, a far finta di andare per poi tornare sempre, implacabile. La famiglia secondo Gabriele Muccino atto secondo, segue le regole ferree del paradosso: tutto quello che nella prima stagione della serie “A casa tutti bene” (Sky e Now) sembrava spinto al solito stremo con conseguenze a tratti ridicole, questa volta invece funziona. Stesso motore per lo stesso percorso. Eppure, questa volta la strada sembra in discesa.

Lasciati da parte, se dio vuole, gli artifici degli inutili flashback e affinata la trama con tratti di giallo dal colore decisamente più invasivo, si torna lì dove tutto era finito.

Infilati a forza sempre nell’unico ristorante con un giardino capace di essere claustrofobico come un’ossessione mentale, la famiglia Ristuccia si urla addosso con quella foga che porterebbe qualunque altro regista nel globo a rimettere mano all’intero cast. Muccino invece no, in quelle urla imperterrite ci si crogiola a meraviglia e a poco a poco anche lo spettatore più infastidito da quelle ostinate vene tirate sul collo e quelle bocche spalancate in cerca di fiato si trova dentro al meccanismo oscuro del precipizio in cui cadono, inesorabili, i suoi protagonisti.

Donne e uomini incastrati dall’impossibilità di crescere, fermi in quel ruolo da eterni bambini colti in fallo e condannati per sempre da una colpa atavica che, inesorabile, ricade sui figli, generazione dopo generazione, in un intreccio continuo tra tragedia greca, delitti e castighi e soap opera. In un mondo piccino in cui ogni dolore si tira come una gomena, dove tutto è sfrenato, persino il sesso, incapace di mutarsi in amore, la saga di “A casa tutti bene” perde in questi otto episodi nuovi di zecca quei tratti atemporali che erano stati il suo freno principale, per concentrarsi su un dolore privato, la piccola immane tragedia dell’incapacità di vivere, che non consente di usare i rari sprazzi di felicità per tentare di guardare al domani.

E così resta lì, ferma in un dolente presente, la testa volta al passato, dove la memoria è solo causa di infausti presagi. Mentre gli unici sguardi che annaspano in cerca di una boccata d’aria serena sono quelli che il ricordo dello ieri lo hanno perduto per sempre (Valerio Aprea malato d’Alzheimer è come un piccolo regalo), quelli che provano a fuggire da una casa matrigna e quelli infine che cercano rifugio lontano dalla prigione famiglia.

Per tutti gli altri il precipizio è pronto ad aprire le sue braccia e a chiudere gli orizzonti. Con il fragore della porta di una cella sbattuta con forza.

 

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DA GUARDARE
Ogni volta che si pensa con struggente nostalgia ai Muppets, con la consapevolezza che difficilmente si possa creare un concentrato di intelligenza di livello così alto, ecco che arriva una sorpresa nuova di zecca. Nella serie “The Muppets Mayhem Band” gli inauditi pupazzi sono alle prese col loro primo album (su Disney+)

 

MA ANCHE NO
“L’estate in cui imparammo a volare” è giunta alla sua terza stagione. E considerato che la prima era decisamente una delusione e la seconda una sorta di accanimento, a questo punto della serie Netflix sull’amicizia al femminile tra Katherine Heigl e Sarah Chalke resta poco altro da dire.